di Achille Taccagni
Ogni #fridayforfuture, un passo sull’ambiente.
“La speranza progettuale” è il titolo di uno dei più famosi saggi di Tomás Maldonado, designer e filosofo argentino “adottato”, a cavallo fra gli anni 80 e i 90, dal Politecnico di Milano. È un’opera di grande interesse per il modo con cui affronta il rapporto fra uomo e ambiente, fra progettazione e rivoluzione, fra speranza e utopia. Un testo teorico, a tratti filosofico, ma molto forte nello stimolo all’azione.
I passaggi da riportare sarebbero moltissimi, il libro merita veramente una lettura complessiva; mi “limito” a questo brano, tratto dal capitolo 8 che s’intitola “Disperata speranza”.
Occorre qui domandarsi: per che via siamo arrivati ad una situazione ambientale così minacciata, quali sono i fattori che hanno contribuito a compromettere in tal modo la salute dei componenti del nostro sistema biotico?
In linea di massima, abbiamo già dato risposta a queste domande. Il fenomeno in questione, a ben guardare, è il risultato dell’aumento incontrollato di popolazioni di ogni tipo – umana e non – che agiscono conflittualmente in un tessuto di esigenze contrastanti sempre vasto, delicato e complesso.
Tuttavia dobbiamo ammettere che questa spiegazione, pur valida, è ancora troppo generica. Occorre precisare che tra tutte queste popolazioni ve ne sono due, almeno, che a nostro parere sono le più direttamente responsabili dell’impoverimento ecologico ora denunciato. Si tratta di due popolazioni intimamente vincolate fra loro da un nesso causale: una è quella che abbiamo battezzato la «popolazione dei rifiuti», l’altra è la «popolazione degli inquinanti e dei fattori artificiali di erosione». Il rapporto tra esse è al contempo latente e nascosto, brutale e sottile, e la sua trama logica ha la stessa linearità del processo di cui è l’espressione.
È il processo che si scatena ogni volta che si decide di abolire un prodotto industriale. Da quel momento, il prodotto di cui si è sanzionata la segregazione deve non solo disertare il mercato, ma anche sparire fisicamente. Così, di colpo, il prodotto desiderabile fino a ieri, tramite un «diktat» arbitrario, diviene indesiderabile: un individuo in più nella vasta «popolazione dei rifiuti». Ma esso si rivela un individuo niente affatto docile, con un’energica volontà di sopravvivere: un oggetto che, solitamente, resiste in modo ostinato ad ogni violenza cui lo si sottoponga per annullarlo.
Non è facile fare «piazza pulita» nell’universo degli oggetti. Sembra sia più facile produrre un oggetto che farlo scomparire: le astuzie tecniche più raffinate ci sono di aiuto fino ad un certo punto. Si può tentare di ridurne le dimensioni, di comprimerlo, di smantellarlo, di frammentarlo, di riutilizzarlo o di recuperarlo parzialmente come materia prima; malgrado tutto questo, rimangono sempre dei residui più o meno ingombranti. E quando, dopo molte e complicate operazioni, interventi, manipolazioni, si crede di avere finalmente finito, ci si rende conto che l’oggetto ha abdicato alla sua materialità in modo solo apparente, che vi è stato soltanto un ripiego tattico dal tangibile all’intangibile, dal mondo meccanico al mondo chimico.
L’oggetto è sparito come identità morfologica, e non è più riconoscibile come tale; ha smesso di appartenere alla «popolazione dei rifiuti», degli oggetti degradati. È passato a far parte di un’altra popolazione: gli ingredienti dell’oggetto, dopo un drastico mutamento, sono diventati parte della «popolazione degli inquinanti e dei fattori artificiali di erosione».
A differenza della precedente, questa popolazione non «occupa» gli spazi abitabili, ma li contamina, li corrode, li deteriora, li dissolve, li inaridisce; infine, li rende umanamente inabitabili.
È quindi chimerico da parte dei tattici del collasso capitalista già menzionati – «quanto peggio: meglio» – credere che il formidabile potenziale distruttivo di queste «bombe ad orologeria» potrebbe essere circoscritto ad una determinata area geografica o ad un tipo particolare di società.
La verità è che, se non si prendono per tempo delle energiche contromisure, il maltrattamento da noi inferto all’ambiente potrebbe compromettere, a parere degli studiosi di ecologia, il destino di ogni forma di vita umana sulla superficie terrestre forse già nella seconda metà del prossimo secolo.
Vi sono quelli che sostengono che un tale tetro avvenire non sia meno auspicabile di qualsiasi altro: tutto, essi ci ammoniscono, è destinato prima o poi ad una fine, perciò non vi sarebbe una differenza fondamentale tra l’accettazione rassegnata di una fine sicura a breve scadenza ed il tentativo disperato di posticiparla quanto più possibile. Se pure estremamente ovvia, possiamo riconoscere la validità di questa tesi, ma proprio perché non vi è differenza fondamentale tra un atteggiamento e l’altro, ognuno è libero di fare la scelta che giudica più opportuna, più adeguata alle sue convinzioni.
Si tratta di scegliere tra un pessimismo distruttivo ed un pessimismo costruttivo: la nostra scelta personale cade sulla seconda alternativa. Per noi esiste una sola possibilità: respingere sempre e di nuovo tutto quanto può minacciare la sopravvivenza umana; contribuire a disinnescare le «bombe ad orologeria», cioè replicare all’incremento irresponsabile con il controllo responsabile, alla congestione con la gestione. In breve: la nostra scelta è la progettazione.
da T. Maldonado, “La speranza progettuale. Ambiente e società”, Einaudi, Torino 1970, pp. 78-81.