Il cervello, è l’organo più complesso e difficile da ricreare in colture tridimensionali ed anche i recenti organoidi cerebrali (abbozzi di tessuto coltivati in vitro da cellule staminali) non riproducono l’organizzazione in moduli dei suoi intricati circuiti.
Un passo in questa direzione è stato compiuto da un gruppo di fisici, bioingegneri e neuroscienziati, dell’Università Tufts di Boston, che hanno realizzato una impalcatura porosa composta dalla fibroina, una proteina della seta e proteine della matrice che sostiene le cellule, che è stata popolata con neuroni della corteccia cerebrale.
Questa impalcatura è strutturata in moduli che inducono i neuroni a strutturarsi in circuiti simili a quelli del tessuto nervoso, con una separazione fra sostanza grigia e bianca ed una disposizione a 6 strati tipica della normale corteccia. La corteccia artificiale ottenuta è sopravvissuta per molti mesi rispondendo in maniera simile al tessuto cerebrale sia a danni meccanici sia ad alcuni farmaci, divenendo un buon punto di partenza per la realizzazione di organi-modello da utilizzare per gli studi in vitro.
Sempre negli USA, a partire da cellule staminali embrionali, è stato creato un microcervello affetto da Alzheimer, moltiplicato in molti esemplari, e su di esso si potrà verificare l’azione di 1.200 farmaci già in uso e di altri 5000 che si stavano selezionando sui topi per poi avviare i più promettenti alla sperimentazione umana. Le risposte arriveranno in un lasso di tempo di pochi mesi.
Poter disporre di un modello di cervello umano in vitro dove si verificano i due danni che, allo stato delle conoscenze attuali, sono la causa prima della demenza, semplifica, accelera e rende molto più economica la ricerca sui farmaci. I tempi necessari perché un farmaco arrivi dalla identificazione del composto attivo al banco del farmacista è in media di 14 anni, di cui almeno 10 di sperimentazione sui malati. Otto anni per individuare sui topi la molecola più promettente. E via così, un tentativo alla volta.
Da oggi non è più così. Abbiamo da tempo sostanze che agiscono sulle placche senili, gli accumuli di proteina anomala beta amiloide che progressivamente si diffondono nel cervello, e farmaci che agiscono sulla tau, la proteina che alterandosi, scombina l’impalcatura di sostegno o “scheletro” del neurone. Somministrati ai malati, però non hanno prodotto i benefici attesi. Rimane il dubbio che, dati ai primi segni premonitori, riescano a fermare l’accumulo di placche e la distruzione della tau. Sarebbe una sperimentazione di oltre 10 anni, ma con questo modello di microcervello, sapremo in pochissimo tempo se vale la pena di proseguire.
In questo caso, il “mini-cervello” è stato realizzato da Rudolph Tanzi e Doo Yeo Kim, neuroscienziati del Massachusetts general hospital di Boston (MIT). I due sono partiti da cellule staminali embrionali. Doo Yeon Kim ha avuto l’intuizione vincente: far crescere le cellule embrionali non in un terreno liquido ma sospese in un gel, dove hanno potuto organizzarsi in una rete di neuroni tridimensionale, come avviene nella corteccia cerebrale. Prima però, con una sofisticata operazione di ingegneria genetica, hanno impiantato alcuni dei geni alterati più presenti nei malati, non in tutti, hanno diffuso nel gel un mix di fattori di crescita cellulare scoperti fino ad oggi e hanno aspettato.
In poche settimane le staminali sono diventate neuroni connesse tra loro, e in poche altre settimane la tau ha iniziato a formare i grovigli dentro i neuroni distruggendo lo “scheletro ” mentre fuori crescevano le placche, depositi di un’altra proteina, la beta-amiloide. Inoltre Tanzi ha chiarito un passaggio oscuro della malattia: si pensava che nel cervello si accumulassero molecole di beta-amiloide (non era chiaro se per produzione eccessiva o incapacità di smaltimento) che poi si organizzavano in placche che “turbavano” i neuroni finché non si autodistruggevano. Ma i farmaci che dovevano interferire con questo meccanismo non hanno dato risultati sperati.
Successivamente sono stati messi i geni umani di Alzheimer nei topi (si tratta dei topi transgenici). Gli animali hanno mostrato presto le placche, ma i neuroni sono rimasti integri, il perché non era chiaro. L’eccesso di beta-amiloide non è sufficiente ad innescare la malattia? O i topi erano troppo diversi nonostante l’impianto di geni umani? In mancanza di alternative, i topi sono stati utilizzati per selezionare molecole da avviare alla sperimentazione sui malati. Ma nessuno dei venti farmaci miracolosi nei topi ha aumentato la sopravvivenza dei malati.
D’ora in poi non si procederà più così a tentoni. Tanzi ha già scoperto che le placche fanno saltare le proteine tau dentro i neuroni avviandoli alla morte perché attivano un enzima particolare. Il che chiarisce il modo in cui si sviluppa la demenza e fornisce già un nuovo bersaglio. Un altro mistero per cui il minicervello sarà determinante è capire che cosa fa il gene più potente nel causare la malattia sporadica, ApoEe4, che si trova in oltre il 50% di Alzheimer: non è la causa della malattia, ma aumenta molto il rischio di essere colpito, soprattutto se il soggetto possiede altri fattori di rischio. Anche su questi aspetti, ancora oscuri, si attendono progressi più rapidi; da numerosi studi epidemiologici sappiamo che alcune patologie aumentano il rischio, come diabete o ipertensione, ma non sappiamo come e perché.
Sappiamo ancora poco, sebbene ho avuto modo di parlarne in un articolo precedente, sugli stili di vita connessi alla riduzione dell’incidenza di malattia: attività fisica, stimoli intellettuali, la ben nota dieta mediterranea riducono il rischio. Infine, c’è un meccanismo della malattia sul quale ho lavorato anch’io negli anni scorsi: nel cervello dell’Alzheimer si scatena l’infiammazione, non sappiamo perché e se svolge un ruolo negativo, (ad esempio il sistema immunitario accelera l’eliminazione dei neuroni, o li difende dall’azione tossica della beta-amiloide). Quando si scoprirà questo aspetto, si potrà puntare ad un farmaco efficace, che contrasta o stimola il sistema immunitario.
Roberto Dominici