Viaggio nell’arte: John Pasche e i Rolling Stones

di Ilaria Pullè in arte Billy Polly

Nel 1970 il gruppo musicale inglese The Rolling Stones, con all’attivo già cinque album di notevole successo, avverte l’esigenza di ricercare un logo da poter utilizzare, almeno inizialmente, non tanto per motivi di merchandising quanto in ambito identificativo.

Carta da lettere, manifesti pubblicitari in previsione dell’imminente tour del nuovo disco Sticky Fingers, e quant’altro possa rivelarsi utile alla causa della band. L’essenziale è che sia semplice, riconoscibile, e facile da riprodurre, e per ottenerlo decidono di rivolgersi ad una eccellenza in materia: il londinese Royal College of Art, prestigiosa istituzione universalmente riconosciuta, la cui dirigenza si mette immediatamente alla ricerca di uno studente in grado di ottemperare all’importante richiesta.

La scelta ricade su un allievo dell’ultimo anno in procinto di impegnarsi in un master, John Pasche, il quale si mette immediatamente al lavoro, e nel giro di un paio di settimane consegna alla band la prima bozza.

Il disegno prescelto, però, nonostante le ragionevolmente entusiastiche reazioni dei membri del gruppo, non convince il frontman, Mick Jagger, il quale tuttavia intuisce le ottime potenzialità del ragazzo, concedendogli, tramite l’assistente personale Jo Bergman, una seconda possibilità coadiuvata da una insolita collaborazione.

Il cantante lo conduce nella propria abitazione, spiegandogli cosa stiano esattamente ricercando, soffermandosi sull’esigenza di un logo semplice, fondamentalmente riconoscibile, ma soprattutto in grado, così dice, di funzionare da solo, e rievocando quale idea di riferimento la celebre conchiglia del carburante Shell. A tal proposito gli mostra un’immagine della divinità indù Kali, tema piuttosto ricorrente, all’epoca, in Inghilterra, e Pasche, intuendone la forza comunicativa, rimane particolarmente colpito e suggestionato dalla sinuosa lingua della dea, un elemento potente e al contempo repulsivo – nel manifesto del film Nirvana, di Gabriele Salvatores, è una suggestiva e fiera Luisa Corna a vestirne i panni, mostrando la suddetta lingua scarlatta – il cui color vermiglio ne simboleggia sia la modestia che la sete di sangue.

Pasche si mette al lavoro, e in un tempo relativamente breve, circa un paio di settimane, propone quella che diventerà una delle immagini più iconiche e distinguibili dell’intero immaginario collettivo, destinata a trascendere l’ambito musicale per dominare un’epoca.

John Pasche, Tongue & Lips, 1971, England  – Immagine: web

Volutamente provocatoria – Pasche affermò la propria volontà di rifarsi ad un gesto di protesta universale, come appunto la ‘linguaccia’ – in molti credettero, e la convinzione permane, che quel Tongue & Lips, detto anche Hot Lips, di irriverenza scanzonata eppure non privo di indubbia sensualità, fosse in realtà stato ispirato alla bocca di Mick Jagger.

Anche se ufficialmente non andò esattamente in questo modo, lo stesso autore si ritrovò ad ammettere una probabile intuizione involontaria. La committenza, i suggerimenti di Jagger, la vicinanza visiva, forse condizionante, del cantante, giocarono probabilmente un ruolo non trascurabile.

Del resto, un particolare anatomico del genere, colpiva immediatamente chiunque osservasse il gruppo ed il cantante, con quest’ultimo pronto a giocarci in ogni occasione, e una miriade di citazioni che, nel corso degli anni, avrebbero finito per colonizzare imitazioni, espressioni e battute umoristiche. Colui del quale qualcuno commentava, poi riportato anche tra le battute del libro Anche le formiche nel loro piccolo s’incaxxano, avesse una bocca talmente grande da poter suonare una tuba da entrambe le parti, sovente accostato, in una sorta di immaginifica, visiva e vivida eredità estetica, a Steven Tyler, leader degli Aerosmith.

Particolare interessante, il disegno originale inviato dall’artista, a causa dei mezzi, tra fax e simili, all’epoca molto più limitati di quelli odierni, era inizialmente in bianco e nero, oltre a presentarsi troppo sgranato per poter essere effettivamente utilizzato, e venne in seguito modificato da Craig Braun, un collaboratore di Andy Warhol – entrambi erano impegnati nella lavorazione della copertina di Sticky Fingers – il quale provvide linearmente a ridefinirlo.

Non si sa fino a che punto sia poi intervenuto anche Re Mida Andy Warhol, in grado di trasformare più che in oro ogni dettaglio degno della sua attenzione – nel 1977, a New York, aprirà lo Studio 54, e Warhol, Bianca Jagger, prima moglie di Mick, e Liza Minnelli determineranno la fortuna di quelle mitiche serate – oltre ad aver già collaborato, con incredibile successo, alla copertina di The Velvet Underground & Nico, tuttora comunemente chiamato the banana album, in un’ottica non priva di risvolti anche erotici.

Resta il fatto che la vaga ambiguità della cosa, forse incoraggiata dallo stesso Warhol, che per ammissione del suo stesso biografo avrebbe evitato volutamente di chiarire, cattura e moltiplica in maniera esponenziale ogni potenzialità di quel simbolo, trasformandolo da preordinatamente ambiguo a praticamente magico.

 E da allora, nella storia…

 

 

 

 

 

 

 

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