di Luigi Losa
Di Walter Tobagi, giornalista del Corriere della Sera, si ricorda solitamente il giorno della sua uccisione, il 28 maggio del 1980, in via Salaino a Milano, a pochi passi da casa, per mano di un commando di terroristi di sinistra, la ‘Brigata 28 Marzo’, composto da giovani della borghesia cittadina.
Ma è giusto ricordare anche il giorno della sua nascita, il 18 marzo del 1947 in quel di Spoleto, perché consente di mettere in evidenza il ‘privato’ di questa vittima, una delle tante, troppe, degli anni di piombo.
Walter, figlio di un ferroviere, Ulderico, a otto anni seguì la famiglia e andò ad abitare a Bresso, nell’hinterland dello sviluppo tumultuoso di quegli anni. Studente del Liceo Parini di Milano, già dagli anni del ginnasio iniziò la sua attività giornalistica nel celeberrimo giornale della scuola ‘La Zanzara’ che giusto 50 anni fa fu al centro di un vero e proprio scandalo per la pubblicazione di un’inchiesta sui comportamenti sessuali dei giovani.
Tobagi, terminato il liceo, entrò come giornalista all’Avanti, il quotidiano del Partito socialista che gli valse quell’etichetta politica, ma vi rimase solo pochi mesi passando poi ad Avvenire, il quotidiano cattolico da poco fondato (1968) e diretto da Leonardo Valente.
Nel 1972 Walter approdò quindi al Corriere della Sera dove iniziò quasi subito ad occuparsi anche di terrorismo, attività che gli costò la vita per le sue coraggiose prese di posizione. Celebre tra i tanti scritti, l’articolo dal titolo ‘Non sono samurai invincibili’. Molto attivo sul fronte sindacale in genere e ancor più della categoria fu presidente dell’Associazione lombarda giornalisti.
Ho avuto la fortuna di incontrarlo una volta, da giovane collaboratore del Corriere, proprio nella redazione di via Solferino, in una riunione di corrispondenti del giornale per ragioni proprio sindacali di cui si occupava: conservo il ricordo di un uomo mite anche nell’aspetto ma attento, sensibile e partecipe dei problemi dei ‘precari’ ante litteram.
Durante gli anni ad Avvenire, poi, ebbi occasione di occuparmi del suo assassinio con una breve intervista telefonica alla moglie, ormai vedova, Stella, donna chiusa nel suo dolore e protesa a proteggere i figli Luca e Benedetta rimasti orfani a sei e tre anni di età.
Stella in tanti anni ha rilasciato rarissime interviste: in una, a ‘La Stampa’, si capisce anche il perché: arrivò in via Salaino praticamente con la polizia, stava tornando dal parco Solari e sentì le sirene. Aveva per mano Benedetta, oggi giornalista e scrittrice, impegnata politicamente, consigliere della Rai sino all’anno scorso.
Questa dimensione familiare della tragedia me l’ha sempre fatta accostare ad una similare: quella della famiglia Calabresi. Anche il commissario di polizia Luigi Calabresi fu assassinato a Milano il 17 maggio del 1972 da terroristi di sinistra, a seguito di una infamante campagna scatenata contro di lui perché ritenuto colpevole della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli nell’ambito delle indagini sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Calabresi cadde sull’asfalto di via Cherubini, sotto la casa in cui abitava con la moglie Gemma Capra, incinta, e i due figli, Mario, oggi direttore de La Repubblica, e Paolo. Il terzo figlio, Luigi, nacque pochi mesi dopo la sua morte.
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