di Alfredo Somoza
Lo Zimbabwe è da molti anni un caso da manuale. Fino al 1980, questo Paese dell’Africa meridionale si chiamava Rhodesia in onore di sir Cecil Rhodes: un imprenditore e politico britannico che si era costruito un impero personale nel Continente Nero, depredandone le risorse. Dopo l’indipendenza e la fine del predominio bianco, lo Zimbabwe ha conosciuto solo momenti di caos economico inframezzati da ondate di repressione del dissenso.
Il padre-padrone del Paese, il novantunenne Robert Mugabe, già tra i promotori dell’indipendenza, ha rivestito senza soluzione di continuità il ruolo di primo ministro e poi di presidente dal 1980 a oggi. Di ideologia marxista, Mugabe è presto diventato un esponente di quella particolare razza di “dinosauri politici” africani preoccupati solo di perpetuare il proprio potere a qualsiasi costo. Considerato “persona non grata” da buona parte dei Paesi occidentali, ha portato lo Zimbabwe a essere sottoposto a sanzioni internazionali: eppure è riuscito a restare aggrappato al potere grazie al sostegno discreto del Regno Unito e a quello palese della Cina.
Lo Zimbabwe è ricco di risorse agricole e minerarie, eppure la sua economia è dissestata, soprattutto perché le migliori terre, espropriate ai coloni inglesi, sono state poi concesse dal governo in modo clientelare. Dopo la dichiarazione di fallimento negli ’90, negli anni 2000 il Paese è stato colpito da una crisi di iperinflazione senza precedenti. Nel luglio 2008 l’inflazione ha toccato la fantasmagorica quota di 231 milioni per cento: lo Zimbabwe si è visto costretto a cessare di battere moneta e ha adottato come valuta il dollaro statunitense e il rand sudafricano. L’economia allo sbando, la situazione politica bloccata, la popolazione sofferente che in massa emigrava verso il Sudafrica erano le poche notizie che filtravano all’esterno.
In un simile scenario si è rafforzato il ruolo della Cina, che negli anni della crisi è diventata il primo partner commerciale del Paese. Il gigante asiatico, nuovo grande socio degli Stati africani, è infatti il principale acquirente delle derrate alimentari prodotte in Zimbabwe e vi esporta tutti i manufatti di cui si ha bisogno localmente, incluse le armi per l’esercito di Mugabe e gli aerei per la compagnia di bandiera. Le autorità di Pechino, che hanno incluso lo Zimbabwe tra le “destinazioni autorizzate” per i loro turisti, hanno recentemente cancellato 40 milioni di crediti in scadenza nel 2015.
Questa politica della Cina, che tende a consolidare i rapporti non solo commerciali ma anche finanziari e politici con i suoi fornitori di materie prime, sarà ulteriormente rinforzata da 60 miliardi di dollari di investimenti per lo sviluppo delle infrastrutture africane annunciati dal presidente Xi Jinping.
Sulle ragioni del successo della Cina in Africa si è molto scritto e detto, ma il dato principale rimane che, per Pechino, Paesi disastrati come lo Zimbabwe possono diventare partner strategici, a prescindere dalle sanzioni internazionali, dalle violazioni dei diritti umani, dalla mancanza di democrazia.
E ora lo Zimbabwe ripagherà la Cina con una decisione dal forte valore simbolico: dal 2016, il Paese africano adotterà la moneta cinese come valuta nazionale. Lo yuan o renminbi, pochi mesi dopo aver superato il test d’ingresso nel paniere del FMI, diventa per la prima volta moneta di riferimento di un Paese terzo. Come la sterlina britannica, il franco francese o il dollaro statunitense. Anche Pechino, che però non ha mai avuto le colonie, debutta nel ristretto club delle valute forti. C’è da scommettere che ciò che sta avvenendo nel laboratorio dello Zimbabwe non rimarrà un caso isolato. Il mondo è cambiato, anche se ancora facciamo fatica a percepirlo.