Da Piazza Tiananmen il grido di Mao Zedong fu forte e chiaro “Il Popolo cinese si è alzato in piedi“, andando a segnare indissolubilmente quella Cina che, ancora oggi, chiede una libertà mai avuta.
Era il primo ottobre del 1949 e le forze comuniste di Mao erano riuscite a declassare sull’isola di Taiwan, dopo una lunga e sanguinosa guerra civile, l’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek, nonostante la superiorità militare che quest’ultimo aveva dimostrato negli anni, avvallata significativamente dall’appoggio delle maggiori potenze occidentali, Ma si racconta che i comunisti avessero un generico e poco precisato popolo dalla loro parte e ciò permise loro di sbaragliare quegli avversari contrari all’agognata Rivoluzione Comunista che, allora, in tanti sognavano per quei popoli meno sviluppati e in condizione di sfruttamento coloniale: la dittatura democratica del popolo era finalmente giunta. Il Partito Comunista Cinese, con 4,5 milioni di iscritti, era alla guida di un immensa nazione, della Civiltà Millenaria per antonomasia. Il Presidente Mao divenne il salvatore di una Cina che per troppo tempo era stata sfruttata, procurandosi, all’apice del culto della sua personalità, l’appellativo di “Quattro volte grande”: “Grande Maestro, Grande Capo, Grande Comandante Supremo, Grande Timoniere”.
“Le grandi vittorie della guerra di Liberazione del Popolo cinese e la rivoluzione popolare in Cina hanno posto fine all’era dell’imperialismo, del feudalesimo e del capitale burocratico. Da una società di oppressi il popolo cinese è passato ad una nuova società e ad un nuovo stato che ha sostituito il governo oppressore, fascista, dittatoriale e reazionario del Guomindang con la Repubblica della dittatura democratica popolare. La dittatura democratica del popolo cinese è dei contadini, del popolo organizzato, della borghesia nazionale e degli elementi apartitici democratici basata sull’alleanza degli operai e dei contadini e diretta della classe operaia” disse Mao all’indomani della vittoria.
Un personaggio complesso, simbolo di un’epoca e, contemporaneamente, leader reazionario, feroce e sanguinario, venerato e vituperato da milioni di persone. Certamente a lui si deve la nascita di una Cina libera e unificata, ma, contemporaneamente, non gli si possono negare le responsabilità dell’invasione del Tibet così come il conflitto con l’India del 1962. Un mito che con il tempo è andato sfumandosi, smascherato prima dagli storici, poi da personaggi a lui vicini.
Di recente edizione, solo per citarne uno tra i molti, un volume dal titolo emblematico, incastrato in una foto a piena pagina su sfondo rosso “Il Mostro del Partito” firmato da Jung Chang e da Jon Halliday, ha disegnato il “Presidente” come il più grande assassino della storia: “un dittatore peggio di Hitler, peggio di Stalin”, “un pavido opportunista che ha sterminato 70 milioni di cinesi”. Eppure c’è chi ancora legge con devozione biblica il famoso Libretto Rosso, l’antologia di citazioni tratte dagli scritti e dai discorsi di Mao.
Ed infine, lasciando agli storici materia su cui lavorare e fatti da interpretare, viene da chiedersi se la situazione della Cina sia mai migliorata, quando a Hong Kong vengono vietate libere elezioni, quando le bocche vengono chiuse e le penne censurate. Ancora, nel 2014: lì, nella culla della Civiltà Millenaria.
Camilla Mantegazza