12 settembre 1981: addio a Montale, poeta e giornalista

imageTanto dalla fama pubblica quanto dal giudizio critico la poesia di Montale è parsa, con gli anni Settanta sino ad arrivare ai primi decenni del nuovo millennio, la più alta di tutto il Novecento italiano. Tutta una parte, e non la meno importante, della critica del dopoguerra ha infatti situato questa poesia accanto alle massime espressioni liriche della nostra letteratura, da Petrarca a Leopardi. In infinite esegesi dedicate alla sua opera lirica, estesa su mezzo secolo di storia, si sono imbattuti i grandi nomi della critica letteraria, da Asor Rosa a Franco Fortini, passando da Carlo Bo e Gianfranco Contini.

Ma Montale non era solo poesia, nonostante ciò che i nostri manuali cerchino spesso di farci credere. Ed è stato lui stesso a suggerircelo. Intellettuale colto, lucido e assai cosciente, riconosceva di possedere un temperamento orientato “nel senso della lirica e della critica letteraria”: un dualismo che da una parte ha arricchito la sua poesia di una rara -almeno a tale altezza cronologica- consapevolezza tecnica e storica, dall’altra ha reso particolarmente acuta la sua saggistica letteraria e i suoi giudizi estetici. Dunque, non si può negare che nella produzione prosaica del poeta un posto di assoluto rilievo debba occupare proprio l’attività critica, praticata sin dai primi anni Venti, sin dagli albori della sua scrittura, sin dai giorni in cui il primo e più alto Montale di quegli Ossi di Seppia passati inosservati metteva nero su bianco i suoi versi. Così, come critico, al poeta non si può solo attribuire il merito di aver scoperto e precocemente valorizzato penne come quelle di Svevo e di Saba, ma, più in generale, gli vanno riconosciute indiscutibili doti di intuito, di equilibrio e visione di insieme, dispensate per altro in una forma chiara e comprensibile, priva di inutili tecnicismi e spontaneamente disposta al dialogo con il lettore.

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Tale dote fu messa precocemente in campo dal poeta del “meriggiare pallido e assorto”. Collaborò prima con emerite testate come “Solaria” o “Letteratura” sino a far divenire la critica “il suo secondo mestiere” sulle pagine del “Corriere della Sera” fino a definirsi, in un’intervista rilasciata al settimanale “Oggi” nel 1966, uno del mestiere: “Io mi sono sempre qualificato giornalista e basta. Quando vado negli alberghi, o quando firmo dei documenti, all’indicazione ‘professione’ scrivo ‘giornalista’. Cosa dovrei mettere, poeta? Professione, poeta. Farebbe ridere”.

Era il 1948, l’anno in cui, dopo due anni di collaborazioni, il poeta venne assunto da via Solferino come redattore. Era il 30 gennaio, e Montale si presentò cauto e silenzioso nello studio dell’allora direttore Gulielmo Emanuel, in quel momento nervoso e accigliato. Sulla sua scrivania un flash di un’agenzia di stampa: Gandhi era stato assassinato. Montale capì di essere capitato nell’occasione sbagliata, sino al momento in cui quel pezzo, il suo primo pezzo da redattore, capitò quasi per caso nelle sue mani. Si dice che in una stanza in solitaria si mise a scrivere quel redazionale, con opinabili capacità di dattilografo. L’allora redattore del Corriere scrisse “Gli chiesi di controllare il pezzo giacente in archivio già pronto per l’ occasione, e di rivederlo, sistemarlo e aggiornarlo con le ultime notizie. Egli invece lo rifece completamente, scritto di getto, con considerazioni umane, politiche e sociali che ne fecero uno dei migliori commenti apparsi in quell’occasione sulla stampa italiana. Era così bello che lo pubblicai come fondo di prima pagina, un fondo scritto per la prima volta da un poeta. Un poeta che aveva saputo comprendere, meglio di altri, l’ apostolo della resistenza passiva, l’erede del misticismo indiano. Da quella sera Montale oltre all’orario di giorno passava molte altre ore al giornale, dalle 21 di sera alle 2 di notte, nell’eventualità di avvenimenti improvvisi che richiedessero la sua collaborazione”. Il giorno seguente l’articolo “Missione interrotta” andò in stampa, senza firma, quasi sicuramente per sua volontà. Quell’articolo segnò la sua storia, quella storia da giornalista che stimava e amava. Schivo e pigro nei rapporti tanto che Indro Montanelli, passeggero compagno di testata, disse che “lui di qua, io di la’ da una scrivania a doppia piazza… tentai di sorridergli; ma e’ difficile sorridere a Montale”.

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Durante la sua carriera in via Solferino molti suoi ammiratori gli rimproverarono di aver abbandonato le muse della poesia. In un articolo, Dino Buzzanti, amico e collega, scrisse “Tutto bene, direte, però intanto Montale di poesie non ne scrive più. Ma è colpa del lavoro giornalistico? È colpa di Milano? Si tocca qui un tasto delicato e segreto; esprimere giudizi o recriminazioni sarebbe idiota, oltre che imprudente. Al proposito, lui che cosa dice? Montale, sull’argomento, ha come al solito un malinconico pudore: ‘Mettere al mondo un bambino e mettere al mondo un coniglio, costa alla madre la stessa fatica’ ha detto un giorno ad amici ‘eppure fra un bambino e un coniglio c’è una certa differenza. Ebbene, da alcuni anni io metto al mondo conigli’. Ma verrà anche, vedrete, il bel bambino”.

Camilla Mantegazza

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