di Daniela Zanuso
Era il 20 dicembre 1971 quando Medici Senza Frontiere veniva fondata, in Francia, da un gruppo di medici e giornalisti francesi. Un’associazione privata a carattere internazionale.
Era stata la guerra di secessione del Biafra, in Nigeria, a suscitare le condizioni motivazionali per la creazione di questa organizzazione medica, libera nelle sue parole, nelle sue azioni e guidata da un sogno: aiuto, aiuto al di là di differenze di razza, fede e convinzione politica.
Segue il terremoto del Nicaragua, la fuga dei cambogiani dai Khmer Rossi, la guerra in Libano, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, la carestia in Etiopia, i conflitti in America Centrale, la guerra civile in Sri Lanka, Somalia, Burundi, il terremoto in Armenia, il grande crollo, i rifugiati curdi, la guerra bosniaca, il genocidio in Ruanda, il massacro di Srebrenica, la guerra in Cecenia, l’invasione dell’Iraq, l’emergenza nel Darfur, nell’Ituri, lo tsunami, Haiti, il colera in Angola, la guerra in Libano, in Siria, il disastro delle Filippine.
Nel 1999 il Premio Nobel per la Pace: come “riconoscimento per il lavoro umanitario pioneristico che l’organizzazione ha realizzato in vari continenti” mostrando “alle vittime un volto umano” testimonianza “di rispetto per la dignità della persona, fonte di speranza per la pace e la riconciliazione”.
Ed è questo il lavoro di Medici senza Frontiere, da 45 anni. Un impegno che medici, infermieri, mediatori culturali e figure sanitarie dedicano ai paesi dimenticati, sofferenti e distrutti, in qualità di volontari, senza discriminazione alcuna, sia questa razziale, religiosa, filosofica o politica. Perché azione umanitaria non è solo assistenza materiale, ma riconoscimento della dignità intrinseca di ciascuna vita umana, ovvero protezione. Proteggere comporta un riconoscimento di diritti e dignità, dove l’assistere ha come obiettivo la sopravvivenza di popolazioni vulnerabili.
Medici Senza Frontiere c’è, dove noi spesso non ci siamo, dove i media sono assenti, dove le vite umane si sprecano, senza alcun rispetto. E fanno credere agli assistiti, e a noi, che una vera umanità ancora esiste, anche dove spesso sembra assente.