È un’illusione che le foto si facciano con la macchina… si fanno con gli occhi, con il cuore, con la testa.
Credo sia questa la frase che racchiude, meglio di altre, l’essenza del lavoro di Cartier Bresson, lo stile inconfondibile, il suo approccio con la macchina fotografica. La macchina fotografica diventa lo strumento dell’intuito e della spontaneità, anzi come diceva lui “il blocco degli schizzi”.
Nasce a Parigi, in una famiglia agiata che aveva fatto fortuna nell’industria cotoniera e trascorre il suo tempo libero tra musei, concerti, mostre di pittura. A quel tempo possiede, come tanti altri bambini, una Brownie-Box, che usa per riempire piccoli album di ricordi delle vacanze. Poi, agli inizi degli anni Venti, comincia a praticare la fotografia amatoriale.
Sboccia la passione per l’arte, grazie anche ad uno zio pittore che avrà un grande ascendente su di lui e a diciotto anni si iscrive all’Accademia di pittura di André Lhote, pittore vicino ai cubisti che, accanto alla pittura, aveva sviluppato anche un importante lavoro di teorico e critico d’arte.
Come per tutti i grandi, anche lui avrà un episodio che lo segnerà profondamente: un viaggio in Costa d’Avorio nel 1930, una partenza improvvisa, dovuta forse al desiderio di uscire dal bozzolo famigliare e rompere con l’insegnamento di Lhote che considerava troppo teorico. Lo scopo del viaggio non era stato quello della fotografia, ma al suo ritorno nel 1931, un libro di fotografie di Martin Munkacsi, che contiene una fotografia di tre bambini neri che corrono a buttarsi nel lago Tanganica, sarà per Henry una vera e propria rivelazione. In quell’immagine c’era tutto: la grazia compositiva, la dinamica, l’intensità, il contrasto.
“Ho capito improvvisamente che la fotografia poteva fissare l’eternità in un attimo” dirà più tardi. Distrugge le sue tele e comunica al padre il desiderio di diventare fotografo.
Il suo lavoro lo porterà a girare il mondo e diventerà, ben presto, uno dei fotografi più amati e conosciuti di tutti i tempi, oltre che il precursore del fotogiornalismo. Il suo talento è immenso, così come pure la sua perfezione compositiva.
Secondo lui non erano necessari grandi mezzi, anzi, è da un’economia di mezzi che si arriva alla semplicità di espressione, perché è molto più utile “osservare lì, dove gli altri sanno solo vedere “ e saper pazientare in attesa “dell’istante decisivo”.
Indiscutibile il virtuosismo delle sue inquadrature, testimoniato dalla ricerca di geometrie, di equilibri ma anche la sua connivenza con il surrealismo che Bresson esprime attraverso il gusto della libertà, dell’irriverenza, del giocoso .
E’ stato un artista intraprendente che ha saputo, con grande maestria e un gusto estremo, rubare le immagini al tempo e testimoniare, in modo assolutamente personale, alcuni degli istanti che sarebbero diventati storici, leggendari .
Sapeva comprendere l’importanza attraverso l’essenza, percepire l’energia di un luogo, l’atipicità di un momento, l’espressività di uno sguardo, ma soprattutto aveva la capacità, tutta istintiva, di sapere quando è il momento di aspettare il guizzo visivo e archiviarlo nella memoria della sua inseparabile Leica.
Daniela Zanuso