Il 22 novembre del 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvava la Risoluzione 242 in merito alla Guerra dei Sei Giorni, affermando l’esigenza dell’instaurazione di “una pace giusta e duratura” in Medio Oriente. Sono passati 46 anni e la richiesta non rimane altro che utopia. Chi abbia voluto questa fulminea guerra, come sempre, è impossibile dirlo. Eppure questa è la domanda del XX secolo che altro non è che incessante ricerca di cause per trovare dei “perché” all’inspiegabilità umana delle guerre. Lo si può immaginare, oppure si può assumere una posizione ideologicamente connotata e argomentare per slogan. Infine, per scovare questo introvabile “chi”, possiamo rivolgerci alla Storia e affidarci alle infinite sfumature che questa ci offre per argomentare e interpretare lo scorrere degli eventi che ci hanno portato fino a qui. E forse così, trovando dei “perché”, allacciando la dicotomia spesso perduta di causa ed effetto, si può arrivare a capire grossolanamente le dosi di responsabilità che ogni figura ha svolto all’interno di questo conflitto che segnò uno scacco nella storia del Medio Oriente. Israele ha sempre sostenuto che si è trattato di una guerra di difesa. In realtà, che si sia trattato di un attacco israeliano è fuori discussione. Il problema è capire se questo attacco ne abbia anticipato uno arabo oppure no e se la sensazione di minaccia diffusa in Israele a seguito di proclami egiziani fosse oggettivamente giustificata. La guerra durò sei giorni con una schiacciante vittoria israeliana e il conflitto cessò di essere una guerra tra stati, così come sin dal 1948 –con la proclamazione dello Stato di Israele- si era caratterizzato. Dal 1967 il punto chiave diventa l’occupazione e la restituzione dei territori occupati, così come chiede la Risoluzione 242 dell’ONU, su cui nacquero scontri e problemi. Ritiro israeliano “da” territori occupati, così come dice il testo inglese, o “dai” territori occupati, seguendo la traccia francese? La pace e la giustizia non ricevettero dunque un buon servigio dagli estensori del testo che avrebbe dovuto aiutare la risoluzione del conflitto. Mantenere una così grave ambiguità relativa al tema nodale significò lasciare spazio ad un’infinita controversia riguardo il significato oggettivo da attribuire a quel paragrafo. Il ritiro totale di Israele dagli spazi conquistati era la richiesta araba –e coadiuvata dal testo francese- non appoggiata dall’altra parte in causa e dal testo inglese. E da qui, il conflitto che ancora ai nostri giorni è aperto. Fino a che non verrà superata questa diversità di opinioni riguardo il futuro di tali territori, ovvero riguardo alla corretta interpretazione della risoluzione 242, risulta impossibile arrivare ad una soluzione della questione del Medio Oriente. Numerose poi furono le altre conseguenze portate dalla guerra. Il sogno di un’unità pan-araba vagheggiato dall’egiziano Nasser, svanisce. L’Islam diviene elemento unificante e terreno su cui trovare un’identità comune per le masse arabe. Della stessa importanza è il cambiamento che la guerra ha rappresentato per la Palestina poiché, da questo momento, il controllo dell’OLP sarà indipendente e caratterizzato come movimento in esilio, e non più guidato e assoggettato dagli stati arabi –e dai loro interessi nazionali. Accanto a ciò disgregazione, militarizzazione, divisione. E una Risoluzione 242 che sembra negare l’esistenza di una Palestina, che non offre nulla ai palestinesi e che vengono contemplati solo in merito al problema dei rifugiati, così come Noam Chomsky ha scritto e sostenuto.
Camilla Mantegazza