di Camilla Mantegazza
Forse non è mai esistito: solo fumo e voce, come disse Jorge Luis Borge. Uno, o nessuno, William Shakespeare, fascinatore eterno, oggi è più celebrato che mai. “Un barbaro non privo di ingegno”, scrisse Alessandro Manzoni, rifacendosi alle sue umili –e non certe- origini. Luigi Sampietro, anglista e critico letterario, lo definisce come un’icona pop, un brand, come il Mc Donalds o la Coca Cola per l’America: un tratto identitario di quell’isola potente che per prima ha ospitato la sua magnificenza. Quando nell’Enrico IV, Shakespeare libera dalla bocca di un suo personaggio “la gloria è simile a un cerchio nell’acqua che va sempre allargandosi, sin quando per il suo stesso ingrandirsi si risolve nel nulla” forse non aveva ragione.
Nel suo nome, in tutto il mondo, ogni anno si organizzano rassegne, dibattiti, rappresentazioni per ricordare i suoi versi senza tempo, le sue commedie, le sue tragedie, la sua arte e il suo pensiero. “Shakespeare è il poeta dell’uomo. Abbassa il cielo. Considera, come Montaigne, l’uomo misura di tutte le cose e l’aldilà qualcosa che forse non esiste. Esalta la forza dell’amore: temi spendibili in tutte le epoche. Come lo scetticismo, che mette in bocca a vari suoi personaggi. E la sorte avversa, che colpisce non gli uomini comuni ma i re, i campioni, coloro che dovrebbero avere più forza d’animo. Il gioco dei potenti, uomini spietati, rapaci, senza scrupoli: è tutto estremamente contemporaneo. La crudeltà con cui viene condotta la scena politica allevia il peso del pubblico o del lettore. E un po’ ci “consola”.
Ed è proprio questo ciò che lo rende moderno, sottolinea Sampietro. Perché Shakespeare parla di ira e di vendette, di odio e di soprusi, di sogni e follie, di eros e passione, di vita e di morte con una originalità e forza tale da oscurare e da rendere piccola tutta la produzione teatrale di coloro che, al tempo, divennero semplici fornitori di copioni per la nascenti compagnie della capitale, ad esclusione, forse, di Marlowe, Jonson e Chapman. Il tutto con un approccio dialettico, che contempla, cioè, la complessità del reale non riducendola ad un’unica e immutabile prospettiva.
Mille sfumature, milioni di interpretazioni, infinite chiavi di lettura. Così, di volta in volta, nei suoi drammi la morte –ad esempio- è uccisione dei colpevoli, evasione ultima dalla realtà, sogno, soglia di accesso al regno degli spiriti, fine gloriosa, stoico sacrificio e comunque sempre spunto privilegiato per indagare nei recessi della sofferenza umana. Kierkegaard, meglio di molti, ha riassunto in poche parole la forza di quest’autore, che, dopo 450 anni, è più attuale che mai: “La mia anima si rifugia sempre in Shakespeare. Là almeno si sente qualche cosa: là son uomini che parlano. Là si odia! Là si ama, si uccide il nemico, si maledice ai posteri per tutte le generazioni; là si pecca”.