Una data a dir poco imbarazzante per la Cina. La scintilla che accese la rivolta, furono i funerali di Hu Yaobang, ex segretario del partito licenziato per aver appoggiato le rivolte studentesche e una delle menti più aperte e riformiste dell’epoca. Migliaia di studenti, operai ed intellettuali si radunarono, dopo giorni di scioperi della fame e proteste in piazza Tienanmen per chiedere tre cose: democrazia, libertà, rispetto dei diritti umani. La risposta del governo fu durissima, Deng Xiaoping, decise di dichiarare la legge marziale e reprimere con le armi le manifestazioni. Chi c’era, ha ancora negli occhi l’immagine che fece il giro del mondo e che diventò simbolo di quella rivolta. Un giovane studente, poi soprannominato “Tank man” fotografato davanti ad una fila di carri armati nel tentativo di sbarrarne la strada. Un gesto commovente e straordinario.
Qualcuno identificò il ragazzo come Wang Weilin, ma la sua identità non è mai stata certa. Certo è, invece, il bagno di sangue che la rivolta provocò. Centinaia, forse migliaia le vittime. Non si è mai avuto un bilancio attendibile, non è mai stata fatta chiarezza, anzi, le autorità hanno sempre sostenuto che le vittime fossero tutti membri delle forze di polizia, brutalmente ammazzati dai rivoltosi.
Io personalmente ne ho avute le prove. Due anni dopo i fatti di Tienanmen, ebbi occasione di recarmi in Cina. Ho ancora vivo il ricordo degli studenti che incontrai e con i quali ebbi modo di parlare. Mi domandarono se noi occidentali, eravamo al corrente di quello che era accaduto. Di fronte ai miei racconti sulle manifestazioni di protesta avvenute in tutto il mondo, sugli scioperi della fame indetti dai movimenti pacifisti, sull’embargo contro la Cina, rimasero sbalorditi. A loro era stata raccontata tutt’altra storia. Ricordo che uno di loro mi disse che non sarebbe finita lì, che c’era ancora grande fermento e volontà di liberarsi dalle millenarie regole della subordinazione e della tirannia.
Quando fui all’aeroporto, in attesa del volo di ritorno, trovai tra gli scaffali dell’unica libreria un libro in inglese che illustrava scrupolosamente i fatti: immagini di studenti urlanti mescolate ai ritratti dei pochi agenti delle forze dell’ordine lievemente feriti e ripresi in tutte le angolazioni possibili e per finire qualche fotografia di donna che, sorridente, offriva cibo o sigarette alle forze dell’ordine con la frase conclusiva: la pace ritorna. Un libro che il regime aveva accortamente redatto per negare qualsiasi evidenza, e proposto, oltre che alla popolazione, anche a qualche turista sbadato e sicuramente poco informato.
Negli ultimi anni, nonostante l’incredibile sviluppo economico della Cina, la situazione dei diritti umani non sembra essere molto migliorata. Le notizie di questi giorni parlano di numerosi arresti, tutti legati al tentativo di impedire le commemorazioni del 25° anniversario di Tienanmen. Si parla di Pu Zhiqiang, l’avvocato per i diritti umani che aveva partecipato ad un convegno dedicato ai familiari delle vittime del massacro, di due studiosi, Hao Jian e Xu Youyu e della giornalista Gao Yua.
Il pretesto delle eccezionali misure di sicurezza prese dal governo è giustificato con la possibilità di attentati. Pare che anche il Foreign Correspondent Club of China abbia denunciato intimidazioni subite dai giornalisti stranieri e dai loro collaboratori. Amnesty International ci informa, attraverso le dichiarazioni lapidarie di Salil Shetty, segretario generale, che “il presidente Xi Jinping , ha preferito la repressione alle riforme. L’obiettivo è sempre lo stesso: cancellare dalla memoria gli eventi del giugno 1989”. E pare che il Governo cinese ci riesca benissimo.
Da un sondaggio del l’AFP, (Agence France-Presse) alla domanda rivolta ad uno studente dell’Università di Pechino, su cosa sapesse degli avvenimenti del 4 giugno 1989, la risposta è stata: “non so di cosa stai parlando”. Ad eccezione delle “madri di Tienanmen”, che c’erano, e di quelli che hanno visto, la maggior parte della popolazione, soprattutto giovane, è stata ed è tenuta all’oscuro dei fatti. Siamo nel pieno inverno della memoria.
Daniela Zanuso