L’ultimo discorso di Martin Luther King

di Camilla Mantegazza

Il 3 aprile del 1968, sull’apice del pregiudizio etnico e dell’intolleranza razziale, Martin Luther King pronunciò il celebre discorso profetico, che, insieme a molti suoi altri sermoni, segnò in modo indelebile la storia di un popolo, di un’idea, di una battaglia e, infine, di una vittoria.

“Bene, non so ora che cosa accadrà. Abbiamo dei giorni difficili davanti a noi. Ma ora non importa. Perché sono stato sulla cima della montagna. E non mi interessa. […] Voglio solo fare il volere di Dio. E Dio mi ha permesso di salire sulla montagna. E di là ho guardato. E ho visto la Terra Promessa. Forse non ci arriverò insieme a voi. Ma voglio che questa sera voi sappiate che noi, come popolo, arriveremo alla Terra Promessa. E questa sera sono felice. Non ho paura di nulla. Non ho paura di alcun uomo.”

Un discorso che, con toni profetici, siglò il suo addio. Il giorno seguente, infatti, il 4 aprile 1968, Martin Luther King fu ucciso con venti colpi di pistola, a Memphis, nel Tennessee, da uomini bianchi, da coloro a cui chiedeva uguaglianza per quei neri che da secoli vivevano in un regime di segregazione, privi di diritti e inferiori per dignità.

Attivista statunitense, pastore protestante, paladino e “redentore della faccia nera”, di emarginati e di minoranze, militante disarmato della resistenza non violenta e predicatore dell’ottimismo creativo. Un martire del nostro tempo, immolatosi per l’uguaglianza dei diritti di ogni uomo, nei difficili anni Sessanta, per portare la comunità nera verso la distruzione di ogni pregiudizio etnico e razziale. Era il 1963 quando annunciò nella capitale statunitense, dinnanzi a quelle 250.000 persone che stavano partecipando alla marcia non violenta per i diritti civili e l’integrazione razziale, il suo sogno di poter vedere “ un giorno, sulle rosse colline della Georgia, figli di antichi schiavi e figli di antichi schiavisti sedere insieme al tavolo della fratellanza”. Aveva 34 anni, allora.  Aveva già subito otto arresti presuntuosi per la sua attività antirazzista ed altrettanti attentati, ad iniziare da quello organizzato dai fanatici del Ku Klux Klan, il più clamoroso, il più scenografico. Da quel momento, sarebbe stato arrestato ancora ventisei volte, e avrebbe subito altri otto attentati.

E nel 1964, l’anno successivo alla grande marcia di Washington, avrebbe ricevuto il premio Nobel per la pace, per essere presidente e ispiratore della più influente e battagliera organizzazione nera per i diritti civili: la Southern Christian Leadership Conference, da lui stesso fondata sulla scia del pensiero gandhiano. Ma l’infinita marcia di King per i diritti civili era iniziata almeno un decennio prima, nel 1955 in Alabama quando Rosa Parks, una sarta nera, rifiutò di lasciare libero un posto sull’autobus, che, secondo le leggi in vigore, avrebbe dovuto essere riservato ai bianchi. La donna fu arrestata. King, in risposta, convinse la comunità nera a boicottare la società di trasporti. Per 381 giorni, i neri di Montgomery rifiutarono di salire sugli autobus. La società fu sull’orlo del fallimento, ma, soprattutto, la Corte Suprema degli Stati Uniti fu costretta a dichiarare incostituzionale la legge sulla segregazione.

Presto seguirono altre battaglie, non violente, ispirate alla fratellanza, tutte con lo stesso mirino, ovvero l’eliminazione di qualsiasi disuguaglianza. Si pensi alla lotta per il diritto di voto ai neri dell’Alabama, per l’istruzione e l’uguaglianza salariale, per porre fine alla sanguinosa e inutile guerra del Vietnam. E si pensi, infine, al mito di chi, come Martin Luther King, ha pagato la sua attività appassionata e le sue idee con la vita.

Nel suo ultimo discorso, profetico, aveva detto: “Ora io vi auguro buona notte citando una vecchia preghiera degli schiavi, che diceva: ‘Noi non siamo ciò che dovremmo essere, e non siamo ciò che vogliamo essere, e non siamo ciò che un giorno saremo. Ma grazie a Dio non siamo ciò che eravamo’“.

 

 

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