Nacque a Praga, il 3 luglio del 1883. Vittima di un padre scomodo, imponente nell’aspetto e autoritario nelle maniere. Franz Kafka, sin da bambino, visse in balia della sua fragile personalità, sacrificato dall’incoerenza e dalla brutalità della sua educazione, documentate da una famosa lettera-confessione del 1919, Lettere al Padre, esempio di accurata autoanalisi, e,
nello stesso tempo, testimonianza storica rappresentante un mondo impietoso e falsamente moralista. “Di fronte a te avevo perduto ogni fiducia in me stesso e conseguito in cambio uno sconfinato senso di colpa” si legge tra queste sofferte pagine, dove emergono, in tutta la loro drammaticità, la debolezza del giovane, le accuse di parassitismo che gli furono rivolte, l’estremo bisogno di affetto e di comunicazione, unite alla sua inettitudine al matrimonio e agli affari, pilastri su cui si reggeva la società piccolo borghese dell’epoca.
Una martellante insistenza su tematiche psicanalitiche, dettate dall’insopprimibile senso di colpa causatogli dall’autorità paterna, portò Kafka a considerare se stesso uno spregevole insetto. Così, il protagonista del memorabile racconto pubblicato nel 1915, La Metamorfosi, Gregor Samsa, si sveglia una mattina trasformato in un enorme scarafaggio e, senza soffrire della sua nuova e alquanto strana condizione, inizia una
vita da parassita tra le mura domestiche, lasciandosi morire di fame. Una racconto arcinoto, tra i più dibattuti del XX secolo. Breve, inciso, profondamente schietto, redatto in venti giorni di morboso lavoro. Un’opera magistrale, in cui sono riversate le ansie, le angosce e le paure del suo stesso autore: dalla ribadita rivalità con il padre al tema più generale dell’alienazione dell’individuo dal suo io più intimo e profondo causata, in ultima e più profonda analisi, dalla crudeltà del sistema capitalistico. Così, tramite il motivo della metamorfosi, Kafka riuscì a rappresentare il mondo delle sue più infantili paure connesso con la propria incapacità di affrontare una realtà adulta, che lo rifiuta, che lo rinnega.
Una forte carica autobiografica che è presente anche nel suo altro e definitivo capolavoro: Il Processo, Der Prozess, l’opera, che insieme ad altre, secondo la volontà del suo stesso autore, avrebbe dovuto finire bruciata. La dimensione dell’assurdo, che nelle Metamorfosi si manifestava in un caso del tutto eccezionale, si estende ora all’intera esistenza, permeando anche le sue manifestazioni più normali e comuni. Un funzionario di banca come protagonista, arrestato senza spiegazioni riguardo al suo capo di imputazione. Senza colpa, subisce passivamente l’interrogatorio, trasformandolo in una sorta di autoaccusa e di confessione volontaria. Così, alla fine, il protagonista verrà condannato senza ragioni e ucciso da due sconosciuti con un coltello trafitto nel cuore. Ai motivi della privazione dell’identità, dell’impotenza e della colpa, si aggiunge la satirica rappresentazione del provincialismo e della burocrazia di una società che, impadronendosi dell’individuo, lo distrugge.
Un assurdo, kafkiano appunto, che rappresenta la manifestazione più tragica e tristemente grandiosa della letteratura primonovecentesca che scuote alle radici le presunzioni di una società, ormai sulla via di un inesorabile declino.
Camilla Mantegazza