3 marzo 1939: Gandhi inizia il digiuno contro il governo indiano

gandhidi Camilla Mantegazza

“Non c’è strada che porti alla pace che non sia la pace, l’intelligenza e la verità”. Era il 3 marzo del 1939 quando Mohandas Gandhi iniziò il suo digiuno per protesta contro il governo autocratico dell’India. Gandhi, il Mahatma, la Grande Anima, un corpo scheletrico sulle gambe arcuate appena velato da un dhoti di cotone tessuto a mano, che combatte per l’indipendenza, contro l’autarchia, contro l’ingiustizia, deperendo, sino a trasformarsi in una metafora della transitorietà del corpo.

Gandhi, forte oppositore della lotta armata per l’annientamento del nemico –sia questo l’Impero Britannico e lo stesso governo indiano-, utilizzò il digiuno per rendere visibile ed efficace la sua contrarietà allo stato di assoggettamento della sua stessa popolazione. I digiuni del Mahatma, guida spirituale e non dell’India, vennero interpretati sotto diverse sfumature, sia come azione di un nobile animo pronto a sacrificare la sua vita per una causa più alta, sia come abile manovra politica, come una sorta di ricatto morale, come un modo di utilizzare il proprio carisma per imporre la propria volontà.

Si disse poi che i suoi digiuni, accogliendo le sue stesse parole, altro non fossero che un atto di purificazione, un difficile esercizio di autocontrollo. Certo è che la carica emotiva e di presa –a diverso modo sia sulla popolazione che sulle autorità- fu sensazionale. Autocontrollo e rinuncia: le uniche armi possibili per contrastare la violenza, positivamente emulate da Mandela e Luther King. “Per lui digiuno e castità rappresentavano il mezzo attraverso il quale un indiano poteva assumere il controllo del suo corpo ribelle e, col tempo, del suo paese usurpato, per arrivare infine a governare la nazione come governava, appunto il suo corpo”. Convinzione che nascevano non dalla filosofia di Gandhi, bensì da quella tradizione indiana che rifiuta l’idea di una separazione tra corpo e anima: inconcepibile per la cultura occidentale. Ma di forte impatto.

La non-violenza non è un paravento per la codardia, ma è la suprema virtù del coraggioso. L’esercizio della non-violenza richiede un coraggio di gran lunga superiore a quello dello spadaccino. La viltà è del tutto incompatibile con la non-violenza. Il passaggio dall’abilità con la spada alla non-violenza è possibile e, a volte, addirittura facile. La non-violenza, perciò, presuppone l’abilità di colpire. È una forma di deliberato, consapevole dominio del proprio desiderio di vendetta. Ma la vendetta è sempre superiore alla sottomissione passiva, pavida e inerme. Il perdono è ancora più alto. Anche la vendetta è debolezza. Il desiderio di vendetta nasce dalla paura del pericolo, immaginario o reale. Un cane abbaia e morde quando ha paura. Un uomo che non tema nessuno sulla terra considererebbe troppo fastidioso anche il solo esprimere collera, contro chi cercasse vanamente di ferirlo. Il sole non si vendica contro i bimbetti che gli lanciano la polvere. Nell’atto, essi non danneggiano che se stessi”. Tratto da “Il mio credo, il mio pensiero”

 

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