di Camilla Mantegazza
Nasce a Torino, il 22 aprile del 1909. Figlia di un ingegnere ebreo, Adamo Levi, da cui ereditò l’abitudine a “sottovalutare gli ostacoli della vita”, e di una pittrice, Adele Montalcini, che le trasmise la tenacia e la “coerenza nel perseguire le vie che riteneva più giuste”.
Era il 30 dicembre del 2012 quando Rita Levi Montalcini si spense, all’età di 103 anni, senza paura: “la vita non finisce con la morte. Quello che resta di te, è quello che trasmetti ad altre persone. L’immortalità non è il tuo corpo, che un giorno morirà. Non mi importa di morire. La cosa importante è il messaggio che lasci agli altri. Questa è l’immortalità”.
Un corpo fragile ed esile, che s’iscrisse all’Università di Medicina contro il volere del padre, che realizzò un laboratorio in casa per sfuggire alle leggi razziali, che lavorò negli Stati Uniti per quasi 30 anni, riuscendo a convincere un mondo scientifico assai scettico e diffidente dell’importanza di quel “Nerve growth factor” dai lei analizzato attraverso l’oculare di un microscopio.
Quando Rita scoprì l’Ngf, la sua importanza sembrava unicamente legata al sistema nervoso. Era il giugno del 1951, ma lo studio della molecola vitale non si fermò a quel giorno. E da lì gli studi si moltiplicarono.
Molte ricerche – sull’Alzheimer, sul Parkinson, sulla sclerosi multipla, sulle ulcere delle cornee – avvicinarono l’Ngf al letto dei pazienti e al letto degli innamorati. Sì, l’Ngf come “la prima molecola degli innamorati”. Una ricerca condotta dall’Università di Pavia ha infatti dimostrato che il livello di questa proteina risulta essere sensibilmente più elevato durante la fase dell’innamoramento piuttosto che in coppie consolidate o nei single.
Nel 1986 arrivò il Premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia. E tutto ciò, per Rita, non era scienza ma vita, vita spesa in nome della scienza. Si definiva un’artista, piuttosto che una scienziata. All’età di tre anni decise che non si sarebbe sposata. Tralasciò volutamente la possibilità di costruirsi una famiglia per evitare di sottrarre attimi e momenti da quella che considerava non una sperimentazione, bensì una vera e propria missione a favore dell’umanità sofferente.
“Non le fibre nervose, ma le idee germogliavano nel mio cervello, e in modo così tumultuoso da non lasciarmi il tempo di seguire altri pensieri” si legge nel suo libro Elogio dell’Imperfezione. Un esempio, insomma. Un esempio di determinazione, dedizione e coerenza: perché “ciò che importa non è il corpo, ma la mente”.
Mi unisco al ricordo di Rita Levi Montalcini espresso nell’articolo, riportando un pensiero della stessa scienziata italiana scomparsa 2 anni fa a 103 anni in un altro libro dal titolo La galassia Mente; “Nella partita in atto nella scacchiera cerebrale l’uomo ha mosso abilmente i pezzi, a sua disposizione per conseguire l’esito vittorioso. Tuttavia la partita ingaggiata è contro un formidabile avversario: il suo stesso Creatore. Le probabilità di successo sono nulle.