’68 e dintorni: ricordi liceali

di Marco Riboldi

E’ passato un anno dal cinquantesimo del ’68.

Vorrei ricordarlo qui da una prospettiva un po’ particolare, quella di chi in quell’anno (e in quelli immediatamente seguenti) si trovò al liceo, facendo così una esperienza parzialmente diversa dai “grandi”, gli universitari sessantottini.  Noi eravamo non i leoni, ma, al più, i cuccioli del ’68.

Premessa: chi scrive ha vissuto quegli anni con le convinzioni di sempre. Cattolico progressista, allora inserito in Gioventù Studentesca che, almeno dalle nostre parti, guardava a sinistra (i gruppi neofascisti rispolverarono per noi la etichetta di “utili idioti” con la quale in anni precedenti  si indicavano i progressisti ritenuti funzionali ai comunisti). Fummo infatti sorpresi dalla trasformazione in Comunione e Liberazione e dalla progressiva svolta conservatrice. Molti di noi, finito il liceo, andarono nelle formazioni di estrema sinistra oppure divennero sostenitori del “compromesso storico”, cioè dell’incontro politico tra cattolici e comunisti. Non sapevamo quanto sarebbe stato lungo ed accidentato il cammino…

Bene: cosa fu il ’68 per i liceali di allora? (premessa seconda: queste sono le mie impressioni, senza alcuna pretesa di universalità).

Direi innanzitutto una fascinazione: si sentivano discorsi pieni di sicurezza sul rinnovamento della società, sull’imminente capovolgimento di tutto, sulla trasformazione della realtà che ci circondava. Uno ad uno sembravano cadere, o almeno vacillare, bastioni che pareva intoccabili: un certo modo di vestire, di comportarsi tra ragazzi e ragazze, di relazionarsi con il mondo adulto e con l’autorità…tutto ciò che il periodo “beat” ed  “hippie” aveva intaccato sul piano dei costumi trovava adesso anche un risvolto politico forte.

Come capita agli adolescenti e ai giovani di tutti i tempi,  ci sembrava che la nostra rivoluzione fosse a portata di mano: bastava crederci e indossare l’eskimo di ordinanza.

E pensavamo che questa rivoluzione avrebbe travolto le ingiustizie e le violenze quotidiane.

Tutto questo portava ad un certo impegno. La nostra azione ci sembrava importante, quindi si metteva nel quotidiano una energia notevole.

Chiariamo bene: eravamo adolescenti e facevamo le fesserie che fanno tutti gli adolescenti e ci divertivamo da matti. Il nostro mondo non si esauriva certo nel serioso impegno politico.

Però tale impegno era fortissimo e non si limitava alla partecipazione a manifestazioni (il rito più coinvolgente e vissuto: quanti pomeriggi passati a Milano tra p.za Santo Stefano e via Larga, luoghi deputati al  rito predetto!) con numero medio di aderenti che oggi ci si sogna.

C’era una grande curiosità intellettuale, una voglia di sapere e di capire che ancora oggi mi sembra sorprendente. Ricordo certi pomeriggi passati a svolgere “gruppi di studio”, liberi e autogestiti, in cui si affrontavano temi decisamente difficili e testi che richiedevano una attenzione e una preparazione che non avevamo (infatti molti libri affrontati allora abbiamo dovuto rileggerli più tardi per capirli bene). 

Non si organizzava uno sciopero o un’assemblea così “all’incirca”, ma magari si passava un pomeriggio ad analizzare le circolari ministeriali sulla scuola per contestarle  ragion veduta.

Ecco, a me pare di avere ricevuto tantissimo da questo  modo di affrontare le cose: credo di aver imparato allora la curiosità intellettuale, il desiderio di leggere ed approfondire.

Se penso che tra i 15 e i 18 anni affrontavamo i testi di Marcuse, gli opuscoli clandestini dei dissidenti russi o i libri sulla storia del Vietnam… (in questo, la casa editrice vicina a Gioventù Studentesca, la Jaka Book, era una miniera: altro che conservatrice!)

Ripeto, perché ci tengo a non sembrare irrealistico: non tutti erano così impegnati, non tutto il tempo era così vissuto.

Insomma a passeggiare con le ragazze ci si andava volentieri e lo scopo fondamentale non era il commento de “L’uomo a una dimensione” di Marcuse. E a molti compagni non interessava in modo particolare perché ci fosse sciopero: il solo fatto che ci fosse andava bene.

Ma insomma, una certa consistenza c’era e si viveva.

Certo poi c’era il massimalismo adolescenziale, per cui tutto è bianco o nero, senza intermedi. Tanto per fare un esempio (banale, ma significativo) personalmente faccio parte dei molti che bollavano come tempo perso l’ ascolto della musica leggera (così “borghese e disimpegnata”: la musica dei cantautori “impegnati”e la classica erano permesse). Il risultato per me è un tale analfabetismo in merito, per cui non saprei indicare il titolo di una canzone, che so, dei Pink Floyd o di Bruce Springsteen: oltre un po’ di De André, dei Nomadi e di Guccini non vado, e questo non ha molto senso, ovviamente.

Un aspetto particolare era quello ecclesiale: per noi cattolici era il tempo del post-concilio, con una serie di novità travolgenti ed entusiasmanti, con  le esperienze delle “chiese di base”, delle “parrocchie nei cortili”, con aperte contestazioni al conservatorismo di parte della gerarchia.

Basti pensare alla quotidianità  dei ragazzi cattolici della mia generazione: pochissimi anni prima chierichetti che per necessità  sapevano a memoria tutte le funzioni religiose in latino, educati ad una rigorosa obbedienza all’autorità del clero e della gerarchia, poi chiamati alla nuova responsabilità personale e comunitaria di sentirsi definire “popolo di Dio”, protagonisti della vita della chiesa. Bisognava capire, sperimentare, praticare un modo nuovo di essere cristiani.

Il mio parroco, che era uno avanti, una domenica affisse alla parete della chiesa una scritta che diceva “Dio è uno di noi”. Ebbe critiche a non finire (e credo anche qualche fastidio da parte dei superiori) ma quante cose ci fece capire con quella scritta.

E in parrocchia vennero a parlarci un paio di pastori protestanti: pensate che solo qualche anno prima ci avevano insegnato che se avessimo trovato una Bibbia protestante (cioè edita, per esempio, dalla chiesa luterana) avremmo dovuto consegnarla subito al nostro parroco senza leggerla!

Fu bello, ma non facile: bastava poco per capir male e perdersi in strade sballate (e a molti successe).

Un’ultima cosa: bello quel periodo, ricco, formativo, per me davvero anni formidabili, come qualcuno scrisse.

Però va anche detto che io sono stato fortunato, perché in quegli anni sono stato molto ben accompagnato. I miei genitori, un paio di sacerdoti in gamba, qualche professore di quelli che non ti scordi, quegli immensi amici con i quali ho poi camminato tutta la vita… sono stati i miei argini, che mi hanno impedito di perdermi, come invece, purtroppo, è successo a molti altri.

Perché, anche per noi liceali, era un attimo finire in qualche gruppo che partiva dalle manifestazioni  per arrivare alle aggressioni e che pensava che la politica si facesse anche con le chiavi inglesi, le spranghe o le bottiglie molotov.

Pure per i cuccioli del ’68, se tutto è andato per il verso giusto è anche per motivi non del tutto dipendenti dalla nostra volontà.

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