John Kennedy presidente

John_F_Kennedydi Camilla Mantegazza

Quando fu eletto, i giornalisti gli chiesero come si sentisse ad essere Presidente, e Kennedy rispose: “Lo stipendio è buono e posso andare a piedi in ufficio”.  Con ironia Kennedy accolse il risultato elettorale che l’8 novembre 1960 lo vide trionfare sul repubblicano Nixon, vicepresidente in carica.

Una campagna elettorale forte, nuova, che, per la prima volta nella storia USA, vide i due protagonisti sfidarsi all’interno degli studi televisivi, incollando agli schermi 70 milioni di americani. Un Kennedy disinvolto, a suo agio. Un Nixon affaticato, sfatto, sudato. Commentatori dell’epoca trovarono in questi particolari la conclusiva vittoria elettorale di Kennedy, anche se, a livello di oratoria, i due sembravano equivalersi. Anzi, chi ascoltò il discorso tramite emittente radiofonica, puntò le proprie carte su una schiacciante vittoria nixoniana.

L’immagine, però, era ormai divenuta la protagonista. Quanto quest’ultime considerazioni appartengano ai luoghi comuni e ai miti creati dalla storia, non è possibile dirlo. Non si sbaglia, però, se s’intravede in questa campagna elettorale la svolta all’interno dei metodi della comunicazione politica. Da quel momento in poi, l’arena dei media divenne uno spazio esteso in cui i soggetti politici potevano comunicare con i cittadini-elettori, portando a quella che è stata definita come “mediatizzazione” della politica, che ha modificato la natura della comunicazione stessa tra rappresentati e rappresentanti e i contenuti stessi dell’azione politica.

Inutile dire, dunque, quanto ciò, seppur sia prematuro retrodatare il fenomeno a tale incontro-scontro tra Nixon e Kennedy, abbia creato quella personificazione della politica di cui oggi siamo protagonisti per cui, in prima battuta, vince la persona, e non l’idea o l’ideologia, se di essa esistono ancora sfumature e formulazioni.

JKF sembrava voler rilanciare l’inamovibilità e la stanchezza dell’amministrazione Eisenhower, partendo proprio dal discorso inaugurale, del 20 gennaio 1961, costruito e studiato per ispirare fiducia e speranza nella nazione: nelle ore precedenti ne tenne sempre a portata di mano una copia in modo da utilizzare ogni momento libero per prendere confidenza con il testo.

Il discorso divenne poi memorabile e fornì un chiaro indizio di quanto l’oratoria assumesse un ruolo cardine nel modo di “far politica” di Kennedy. L’incipit altro non è che un esplicito richiamo ai valori nazionali condivisi piuttosto che a quelli di partito: “che ogni nazione sappia, sia che ci auguri il bene, sia che ci auguri il male, che pagheremo qualsiasi prezzo, sopporteremo qualunque peso, affronteremo ogni difficoltà, aiuteremo qualsiasi amico, affronteremo qualunque nemico pur di assicurare la sopravvivenza e il successo della libertà”.

L’accento fu poi portato verso le Nazioni in via di sviluppo, alle quali promise solennemente “massimo sforzo per aiutarli a provvedere a se stessi, non perché i comunisti facciano altrettanto, non perché vogliamo il loro voto, ma perché è giusto. Una società libera che non è in grado di aiutare i molti che sono poveri ,non riuscirà mai a salvare i pochi che sono ricchi”. Parole facenti parte di una logica più ampia ascrivibile alle dinamiche intrinseche alla guerra fredda, parole forti, parole che puntavano alla corsa al Terzo Mondo, addolcite con il mito della libertà.

JFK, però, non voleva che Mosca ritenesse la sua amministrazione risoluta a un’apocalittica resa dei conti tra Est e Ovest. Al contrario, buona parte del resto del discorso d’insediamento fu un invito a trovare un terreno comune contro la possibilità di una guerra, che, in questo preciso momento storico, sarebbe stata sinonimo di devastazione totale.

Non volendo peccare di ingenuità, e ansioso di prendere le distanze da irrealistiche aspettative di rapidi progressi orientati verso una probabile distensione dei rapporti tra i due blocchi, asserì: “tutto questo non verrà concluso nei primi cento giorni. E non verrà concluso nei primi mille giorni, né nel corso di questa amministrazione e forse neppure nel corso della nostra esistenza su questo pianeta. Ma dobbiamo cominciare”.

I paragrafi finali furono un richiamo all’ impegno e al sacrificio della nazione. “Ora l’ appello risuona di nuovo: non ci chiama alle armi, per quanto le armi siano necessarie, non alla battaglia, per quanto già si combatta, ma a sopportare il peso di una lunga e oscura lotta che può durare anni… una lotta contro i comuni nemici dell’ uomo: la tirannide, la miseria, la malattia e la stessa guerra… Pertanto, cittadini, non chiedetevi che cosa potrà fare per voi il vostro paese, ma che cosa potrete fare voi per il vostro paese”.

Quest’ultima frase passò alla storia per rimanere attuale. Dopo il discorso inaugurale quasi tre quarti degli americani approvò il nuovo Presidente, nonostante questi portò a casa la vittoria elettorale per un numero esiguo di voti. Dopo incomincia la storia, il Vietnam, la Baia dei Porci, la distensione, i Peace Corps, la visita a Berlino.

Discorso inaugurale, versione integrale

 

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