Moriva il 9 ottobre 1967, in Bolivia, Ernesto Guevara, per tutti il “Che”. Dopo aver combattuto per scacciare da Cuba il dittatore Batista ed essere stato ministro nel nuovo governo di Fidel Castro, si era allontanato dall’isola con l’obiettivo di attuare la rivoluzione popolare anche in altri Paesi, portandola in tutto il mondo.
Fu ucciso a La Higuera, dopo essere stato catturato dall’esercito boliviano anti-guerriglia sostenuto da forze speciali della Cia. La notizia all’epoca fece il giro del mondo, così come le fotografie del suo corpo morto, seminudo e sdraiato su una lastra di cemento. Immagini che le autorità boliviane si affrettarono a diffondere, sbandierando quel cadavere come un trofeo per lanciare un monito a tutti i rivoluzionari. E ottenendo, probabilmente, l’effetto opposto.
Colpì tutti quanti, all’epoca, la somiglianza impressionante che si riscontra nella più famosa di queste immagini, scattata dal boliviano Freddy Alborta, con due quadri celeberrimi: La lezione di anatomia del dottor Tulp del pittore fiammingo Rembrandt, per la composizione della scena, e il Cristo morto del Mantegna, per la prospettiva con cui il corpo morto viene ripreso: è la stessa, con i piedi in primo piano, e il Che sembra davvero Gesù.
E’ inutile negarlo, le immagini hanno svolto un ruolo fondamentale nella costruzione del mito del Che, forse più dei suoi scritti e delle canzoni degli Inti Illimani a lui dedicate.
“Gli eroi son tutti giovani e belli”, dice proprio una famosissima canzone di altri tempi (Francesco Guccini, La locomotiva, 1972). E bello lo è senz’altro, il volto di Ernesto Che Guevara, nel celebre ritratto che tutti conosciamo e vediamo ancora stampato su milioni di T-shirt e bandiere. La fotografia, scattata il 6 marzo 1960 daAlberto Korda (che la intitolò, per l’appunto, ‘Guerrillero Heroico’), lo raffigura con lo sguardo determinato rivolto all’orizzonte, è tra le più riprodotte della storia e ‘resiste’ anche ora, nella civiltà delle immagini contemporanea
Ma, al di là delle foto da vivo e da morto, chi era davvero Ernesto Che Guevara?
Nato nel 1928 a Rosario, in Argentina (il soprannome Che deriva proprio da un intercalare tipico degli argentini che Guevara utilizzava spesso nei suoi discorsi), Ernesto Rafael Guevara de la Serna apparteneva a una famiglia borghese benestante, intraprese studi universitari e si laureò in medicina nel 1953.
Agli anni giovanili risale il celebre viaggio attraverso il Sudamerica a bordo della Poderosa II, la motocicletta dell’amico Alberto Granado, suo compagno di avventura. Guevara raccontò questa esperienza nel diario Latinoamericana (Notas de viaje) da cui è stato tratto il film I diari della motocicletta (2004). Fu un viaggio attraverso la povertà e le miserie dell’America Latina, durante il quale il giovane Ernesto maturò la convinzione che solo una rivoluzione popolare violenta avrebbe potuto porre fine alle disuguaglianze sociali.
Così, dopo la laurea si recò prima in Guatemala e poi in Messico, dove intensificò i contatti con gli esuli cubani e conobbe Fidel Castro. Aderì al Movimento 26 luglio che progettava di rovesciare il dittatore di Cuba Fulgencio Batista e, dopo lo sbarco a La Playa de las Coloradas del 1956, si impegnò in prima persona nella guerriglia. Nel 1959 Batista fuggì da Cuba e Guevara entrò all’Avana, occupò la fortezza della città e sovrintese alle esecuzioni di ufficiali compromessi con il regime.
Si insediò quindi il governo di Fidel Castro, in cui il Che fu chiamato a ricoprire il ruolo di ministro dell’industria e dell’economia. Cuba si trovò allora al centro di complicati intrecci geopolitici, tra Stati Uniti, Russia e Cina, ma il Che non era fatto per le istituzioni e la diplomazia. Preferì allontanarsi dall’isola e, nel segno del motto “Hasta la victoria siempre”, si impegnò a fornire aiuto ai movimenti rivoluzionari di Panamá e della Repubblica Dominicana.
Nel 1965 lasciò nuovamente Cuba per attuare la rivoluzione popolare in altri Paesi, prima nell’ex Congo Belga, poi in Bolivia. Nei suoi scritti sosteneva la “dottrina del focolaio”, il modello cubano di rivoluzione, realizzato da un piccolo gruppo di guerriglieri senza il sostegno di grandi organizzazioni. Un modello che si rivelò fallimentare proprio in Bolivia, ma per cui il Che lottò fino alla morte.
Accusato da molti – in primis lo scrittore Alberto Vargas Llosa – di crimini contro l’umanità, Che Guevara non era certo animato da ideali gandhiani: “Un popolo senza odio non può distruggere un nemico brutale”, scrisse nel 1967. “Bisogna portare la guerra fin dove il nemico la porta: nelle sue case, nei suoi luoghi di divertimento. Renderla totale”.
Gli ideali di socialismo, rivoluzione e lotta violenta all’oppressione in cui il Che credeva, per cui è vissuto e morto, appaiono – forse – archiviati dalla storia. Almeno per l’immaginario occidentale comune, Fidel Castro altro non è che un vecchio dittatore barbuto, che si è macchiato di violazioni e crimini contro l’umanità.
Eppure il volto giovane e bello del Che viene ancora ostentato su magliette, zaini e capi di abbigliamento vari, da persone di tutte le età. Parlando un linguaggio contemporaneo, potremmo dire che è diventato un brand.
Ma esiste forse anche un linguaggio più universale, un tipo di narrazione che si può trovare già nell’antica Grecia e nei poemi omerici. In greco antico la parola era kalokagathìa, e si riferiva al modello di eroe alla Achille Piè Veloce: bello, coraggioso e poco incline ai compromessi.
In questa prospettiva, forse, malgrado gli errori dell’uomo e dell’ideologia di cui fu sostenitore, possiamo dire che il Che rimane ancora e comunque un eroe. O meglio che il mito dell’eroe è ancora vivo in quel volto che guarda lontano, verso un orizzonte che forse non esiste più.
Francesca Radaelli