“A Diogneto”: lezione “politica” antica e attuale

di Marco Riboldi

Attorno al 1436, un giovane umanista italiano, girellando per le strade del mercato di Costantinopoli  si avvide che un pescivendolo avvolgeva la sua mercanzia in fogli di un manoscritto greco.

Acquistati questi fogli, scoprì che contenevano  molte opere dei primi secoli del cristianesimo, tra cui alcuni opuscoli, il più interessante dei quali era indirizzato ad un certo Diogneto cui era diretta una spiegazione in merito alla neonata religione cristiana.

I tentativi di identificare questo Diogneto hanno condotto ad avanzare alcune ipotesi (un dotto della corte di Marco Aurelio, forse).

Ma in effetti, né la sua identità, né quella dell’autore sono state accertate con una certa solidità. La data presumibile del testo è il secondo secolo dopo Cristo e l’intento è evidentemente apologetico e divulgativo. Spesso si parla ancora di “ Lettera a Diogneto” anche se è ormai chiaro che di lettera propriamente non si tratta.

L’intento è quello di spiegare ad un pubblico pagano cosa sia il Cristianesimo.

Le questioni cui l’Autore vuole rispondere sono molte e sono riportate all’inizio del testo: “In quale Dio i cristiani ripongono la loro fede? Quale culto gli rendono? Da cosa deriva il loro distacco dal mondo? Come spiegare il loro disprezzo della morte? Perché non tengono in alcun conto gli dei venerati dai Greci? Perché rigettano come superstizione le prescrizioni degli Ebrei? Quale sorta di amore hanno gli uni per gli altri? Infine, per qual ragione questo popolo nuovo, questo nuovo modo di vivere sono apparsi al mondo nel nostro tempo e non prima ?”

L’esposizione della dottrina cristiana contro la idolatria e oltre la ritualità giudaica, oggetto dei primi capitoli, lascia presto spazio al nocciolo della esposizione dell’Autore: la radicale novità introdotta dal cristianesimo e dal modo di essere dei cristiani.

I cristiani “non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per modo di vestire (…) son sparpagliati nelle città greche e barbare (…) si conformano alle usanze locali(…) e tuttavia, nella loro maniera di vivere, manifestano il meraviglioso paradosso, riconosciuto da tutti, della loro società spirituale (…) si sposano e hanno figli, ma non abbandonano i neonati, mettono vicendevolmente a disposizione la mensa, ma non le donne. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo (…) in una parola, ciò che l’anima è nel corpo, i cristiani lo sono nel mondo”

Questa concezione di come essere nel mondo, che richiama l’ammonimento  evangelico ad essere “sale della terra”, è il punto del testo che intendo qui commentare, non essendo possibile qui analizzare tutte le idee esposte.

Risulta molto forte il richiamo ad un modo di vivere sulla terra che coniughi il rispetto per le leggi e i costumi con una radicalità dell’annuncio cristiano non solo proclamato, ma vissuto, e vissuto in comunità.

I cristiani vivono nel mondo perché è lì che Dio li ha chiamati ad essere testimoni del Suo piano di redenzione e di salvezza: tuttavia, essi non appartengono interamente al mondo.

Non possono lasciarsi assorbire dal mondo, ma non possono astenersi dalla concretezza della vita terrena quotidiana, in tutte le sue implicazioni, perchè è lì, nel mondo di ogni giorno, che essi devono fare da “supplemento d’anima”.

L’inaudito evento di un Dio che si fa uomo, dando vita ad un nuovo tempo di fratellanza, non può restare confinato nel privato del fedele, deve fecondare la terra intera.

Questi tema  propone una riflessione di tipo “politico”.

Il cristiano sta nello stato come cittadino rispettoso, anzi esemplare nel rispettare le leggi; ma non rinuncia a fecondare la comunità civile con il suo modo di porsi davanti alle questioni grandi e piccole del quotidiano  e dell’orizzonte storico.

Non può evitare l’impegno: ne va della sua stessa identità, che pur nel rispetto di tutti non può essere annacquata.

C’è una frase del testo che dice: E’ tanto nobile il posto che Dio ha loro assegnato, che a nessuno è permesso di disertare”.

Queste parole erano interpretate come una condanna del suicidio: ma un celebre lavoro di Giuseppe Lazzati pose in luce che ben altro era da intendersi.

I cristiani sono assegnati al mondo come una sentinella che deve vigilare e non distrarsi o rinunciare. Non a caso il “posto” di cui si parla è designato nel testo originale con la parola greca “taxis” (τάξις), che ha un significato militare: dall’impegno nel mondo non si diserta, perché il cristiano deve stare nella comunità civile e lì impegnarsi.

Oggi questo apre una serie di quesiti sul “come” questo deve avvenire: è il tema dei principi non negoziabili, del dissenso nei confronti di alcune leggi che confliggono con la mentalità cristiana, ma sono largamente accettate dalla opinione pubblica ( il che ovviamente pone problemi al legislatore cristiano), dei “diritti” che non sempre possono essere ritenuti tali dai cristiani, ecc.

Ma lo spunto è sempre quello: non tirarsi indietro, essere serenamente cittadini rispettosi, ma coltivare con cura il proprio specifico contributo al bene comune.

E’ un compito alto, arduo e talvolta di difficile comprensione: in qual modo  “rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” non sempre è facilmente discernibile.

Ma anche una voce antica e fresca del cristianesimo iniziale ci sollecita è in qualche modo ci sfida: perché dobbiamo evitare sia che il sale diventi insipido, sia la pretesa di trasformare il mondo in una saliera (come diceva padre Sorge).            

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