1° giugno 1970: addio a Giuseppe Ungaretti

Giuseppe_Ungarettidi Camilla Mantegazza

“Io credo che non vi possa essere né sincerità né verità in un’opera d’arte se in primo luogo in tale opera d’arte non vi sia una confessione” affermava Giuseppe Ungaretti ogniqualvolta gli fosse chiesto quale fosse il carattere della propria poesia, sottolineandone così il carattere fortemente autobiografico.

L’arte come esperienza assoluta e totale, unica e irripetibile. E così, in ogni verso, in ogni parola pura, “innocente” e illuminante, inserita in versi brevi, collocata nel vuoto o nel silenzio, risuonano stralci di vita vissuta e consumata. Dall’infanzia e dalla giovinezza trascorse ad Alessandria, con le impressioni di un paesaggio affidato poi alle testimonianze della memoria, fino all’incontro con l’Italia, la “terra promessa” dei suoi genitori. Da qui: il mare, il porto, il viaggio, il deserto, il miraggio, le cantilene arabe, come ricordo della terra natale, legati alla vicenda da migrante.

Poi la guerra, la Grande Guerra, temporaneo seppur decisivo momento d’approdo, che offrì ad Ungaretti gli spunti per le sue poesie più crude e sofferte, prive di ogni retorica. Una nuova poetica, fatta di analogie, di ricerca della purezza, di distruzione del verso tradizionale, di cancellazione di ogni orpello linguistico. Un fronte che gli diede anche la possibilità di stabilire un nuovo contatto con la sua gente e di raggiungere la coscienza di una rinnovata identità, costringendolo a vivere nel precario confine tra la vita e la morte, dove ogni cosa, d’un tratto, può scomparire per sempre, all’improvviso.

Poi, nel 1916, la sua prima raccolta, “Il Porto Sepolto” , ovvero il segreto della poesia, nel quale il poeta deve immergersi per coglierne l’assolutezza. A seguire, subito dopo, “Allegria di naufragi”.

Poi una metamorfosi, con le poesie scritte dal 1919 al 1933, inserite in “Sentimento del tempo”. Una seconda tappa del viaggio ungarettiano o, per usare le parole dello stesso poeta, un “secondo tempo dell’esperienza umana”. Un recupero delle strutture sintattiche, delle forme metriche tradizionali sull’esempio di grandi come Petrarca e Leopardi.

Tutto ciò, fino al precipitarsi degli eventi, quando, nel 1947, la raccolta, voce del tormento personale (la morte del fratello e del figlio) e collettivo (la guerra), venne pubblicata con il titolo “Il Dolore”. Un “libro” petrarchesco, dalla struttura di diario patetico, specchio di vita, immediata confessione autobiografica. “So che cosa significhi la morte, lo sapevo anche prima; ma allora, quando mi è stata strappata la parte migliore di me, la esperimento in me, da quel momento, la morte. Il dolore è il libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe di essere impudico.

Quel dolore non finirà mai di straziarmi”. Poi altre raccolte non paragonabili per originalità e bellezza alle prime. La scrittura, sino alla morte: il 1° giugno del 1970.

 

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