da Giannella Channel
La voce di Luis Sepùlveda si è spenta per sempre. Il virus killer lo ha colpito e ucciso all’ospedale di Oviedo, nelle Asturie spagnole, dove era stato ricoverato il 25 febbraio. Aveva 70 anni. Mi inchino di fronte allo scrittore dalla vita intensa e attiva. Esule politico, difensore invano del legittimo presidente cileno Salvador Allende (e per questo incarcerato dal regime di Pinochet), ecologista, cantastorie e autore di best seller mondiali, Luis era anche il presidente onorario dell’Associazione culturale Tonino Guerra, carica che aveva accettato perché sostenitore degli ideali e delle iniziative dell’amato Tonino, impegnato come il poeta del cinema per creare una società di cittadini consapevoli, attenti all’umanità, alla bellezza e alla solidarietà e non di miserabili consumatori e basta. Un affettuoso abbraccio da remoto a Carmen Yanez, poetessa straordinaria e sposa di Luis, colpita dallo stesso morbo, che saluto con le parole che un giorno del giugno 1994, quando dirigevo Airone, mi donò. Aveva per titolo “L’occhio della balena”, e lui, attivista di Greenpeace, con questo racconto invitava i lettori a riflettere sull’eterna storia di amore e odio tra uomo e giganti marini.
A sud del mondo, nell’arcipelago cileno delle Guaitecas, lungo le coste della Patagonia, vive un uomo che conosce le balene. Si chiama Eznaola. Di certo ha un nome di battesimo, ma tutti lo chiamano così, semplicemente Eznaola, quasi a voler rispettare la concisione e la severità del linguaggio marinaro.
Lo conobbi una mattina di agosto del 1990. Ricordo che mi trovavo in un bar di Puerto Chacabuco, in attesa della barca che mi avrebbe condotto al ghiacciaio San Rafael per assistere all’indimenticabile spettacolo dell’accoppiamento dei delfini cruzados (Lagenorhynchus cruciger, Ndr)., quando d’improvviso l’arrivo di tre uomini visibilmente molto stanchi ruppe la calma che regnava nel locale.
“Dov’è Eznaola?”, chiese uno di loro entrando.
“Sul suo battello. Dove potrebbe essere, se no?”, rispose il barista.
“Ci avevano detto che era qui. Una balena si è arenata di fronte a Playa Negra. Dobbiamo parlare con lui”, aggiunse un altro.
“Può darsi che non sia ancora salpato. Andiamo a cercarlo”, rispose il barista. Tutti uscirono dal locale.
Mi unii a loro, e durante il tragitto appresi che Playa Negra era una località a nord della penisola di Taitao, un luogo ostile, castigato dai venti dell’oceano Pacifico e rimasto disabitato fino al 1985. Quell’anno la dittatura cilena si inventò un modo per ridurre la disoccupazione e insediò una colonia di cercatori d’oro proprio in riva al mare. Furono circa trecento le persone venute dal Nord, inesperte della regione australe, e ben presto sperimentarono sulla propria pelle la severità del clima, tanto che molti se ne tornarono a casa. Così, nel 1990, a Playa Negra rimanevano una ventina di uomini, ostinatamente decisi a trovare lo scarso oro che le acque dei ruscelli portavano con sé prima di tuffarsi nel mare.
“Chi è Eznaola?”, chiesi durante il tragitto verso il molo. “Colui che conosce le balene”, rispose un uomo, senza smettere di camminare.
Sanno quello che fanno
Puerto Chacabuco innalza le sue quindici-venti case proprio in fondo al grande fiordo di Aysén le cui rive sono costellate da centinaia di imbarcazioni di tutti i tipi. È un cimitero di navi che, guidate da naviganti inesperti o presuntuosi, si incagliarono tra le scogliere che delimitano il fiordo.
Giungendo al molo, i miei compagni sospirarono sollevati. Lì, sulla coperta di un cutter cileno, un uomo di età indefinibile, corpulento, vestito di uno spesso pullover di lana grezza, riparava una vela. Gli uomini si avvicinarono e lo informarono della balena spiaggiata.
“È viva?”, domando Eznaola, senza interrompere il suo lavoro. “Come facciamo a saperlo?”, rispose uno. “Bene, sciogliete le gomene e andiamo”, ordinò lui.
Il cutter cileno è un’imbarcazione di una decina di metri di lunghezza, circa 4 di larghezza e circa 3 di pescaggio. La coperta non ha battagliola, così che gli eventuali passeggeri sono costretti a viaggiare all’interno dell’imbarcazione, scendendo per un piccolo boccaporto situato al centro della coperta. L’albero consente di armare una vela al terzo, drizzata come randa, e a prua, sullo strallo, si può alzare il fiocco. I tre uomini che erano con me scomparvero rapidamente nel boccaporto.
“Posso venire con lei?” Qualcosa capisco di navigazione”. Eznaola mi invitò a bordo con un cenno.
Cominciammo a navigare, lasciandoci il porto alle spalle e infilandoci nel fiordo. Soffiava una buona brezza da est, e il cutter scivolava via veloce. Eznaola, seduto a poppa, manovrava abilmente il timone. Lo osservavo in silenzio. Era impossibile stabilire quanti anni avesse. Aveva il volto coperto da rughe profonde come cicatrici, che però non offuscavano la lucentezza dei suoi occhi chiari, che forse un tempo erano stati azzurri ma che gli anni avevano reso grigi come il mare all’alba.
“Lei non è di queste parti”, osservò. “No. Vengo dal Nord. Vivo in Europa”. “E che ne sa di balene spiaggiate?”, domandò.
Gli risposi che ne sapevo molto poco. Che qualcosa avevo letto a proposito dell’inspiegabile comportamento dei cetacei, che a volte si precipitano verso le coste andando incontro a una morte orribile. Gli raccontai la vicenda della balena arenatasi a Luc-sur-Mer, un piccolo paese della Normandia. Gli parlai anche di un racconto dello scrittore messicano Eraclio Zepeda, Los trabajos de la ballena, che narra la storia di una balena arenatasi di fronte a un villaggio di pescatori nel golfo del Messico, e di alcuni capodogli che vidi agonizzare sulle spiagge delle Azzorre. Assentiva con cenni della testa mentre il suo sguardo vigile controllava il movimento dell’acqua e la tensione della vela.
“Le balene non si comportano mai casualmente. Sanno quello che fanno”, disse Eznaola, prima di chiedermi di innalzare il fiocco, mentre ci avvicinavamo a un passaggio tra le isole mantenendo il cutter sottovento.
“Potete lavorarla!”
Imbruniva quando calammo l’ancora di fronte a Playa Negra. Una barca ci condusse fino alla riva tappezzata da migliaia di nere conchiglie di cozze – questo spiega il nome attribuito alla località – e ci apprestammo a incontrare la balena. Sul posto si erano radunate una cinquantina di persone, accorse anche dalle isole vicine.
Circondavano l’animale, però senza avvicinarsi troppo. Seguii Eznaola mentre si apriva la strada tra i curiosi. La balena misurava circa 8 metri e giaceva su un lato, immobile. Nel cielo volavano dozzine di uccelli marini venuti fin dalla Patagonia continentale.
“Potrebbe essere una balenottera minore. Un maschio”, indicò. “È morta?”, chiesi.
Eznaola sembrò non udire la mia domanda. Girò intorno all’animale. Toccò il pene rilassato, adagiato sui resti delle conchiglie, poi tornò alla testa. Allora mi fece cenno di avvicinarmi. Quando fui al suo fianco, lo vidi usare le due mani per aprire un occhio della balena. La cornea era color dell’ambra, e la pupilla scura rifletteva gli uccelli che volavano disegnando nel cielo cerchi nervosi; la gente riunita sulla riva e i nostri volti lievemente deformati dalla curvatura dell’iride. In quel momento Eznaola mi sorprese con una richiesta: “Avvicini una mano all’occhio, muovendola, però lo faccia lentamente”. Intanto continuava a tenere aperto l’occhio della balena. Feci quanto mi chiedeva. Avvicinai una mano aperta, muovendola da destra a sinistra. Non scorgemmo alcuna reazione. Il mondo si rifletteva sulla sua pupilla.
“Ora ripeta il movimento, però come se volesse colpirla”.
Lo feci. Arrestai la mano a pochi centimetri dall’occhio. E vidi le mani di Eznaola fremere nello sforzo di impedire che la balena chiudesse le palpebre.
“È morta, potete lavorarla!”, disse a quelli che circondavano il cetaceo. Volevo protestare, ma Eznaola mi strattonò per un braccio allontanandomi dalla spiaggia.
Benedetto sia il mare, vanno!
“Lei sa che è viva”, dissi mentre camminavamo.
“Venga, continui a camminare. Non si giri, hanno già cominciato a lavorarla”.
Camminammo per circa trenta minuti senza una parola, fino a quando raggiungemmo la parte più alta del promontorio che dominava la spiaggia. Da lassù si poteva vedere il mare aperto. Rimanemmo lì un’altra mezz’ora in silenzio, fumando e guardano il Pacifico che si perdeva all’infinito. Eznaola cercava qualcosa tra le onde, il suo sguardo viaggiava da nord a sud. Improvvisamente indicò un punto indefinito dell’orizzonte. “Guardi! Guardi! Vanno”. Aguzzai gli occhi. All’inizio non vidi nulla che non fossero le creste delle onde, ma poi, abituata la vista agli argentei luccichii, scorsi i soffi d’acqua polverizzata, che si innalzavano dalla superficie del mare.
“Lo capisce?”, domandò Eznaola. “No. Non capisco niente”, risposi.
“In qualche fiordo più a sud si riuniscono per accoppiarsi. Prima che sorgessero le case di Playa Negra questo era un luogo disabitato. Le balene passavano di qui e le si poteva vedere saltare nell’acqua. Ora, scorgendo quelle case, debbono pensare che si tratti di uno stabilimento baleniero, e una di loro si sacrifica affinché le altre possano tranquillamente proseguire verso sud. Capisce? Ho palpato il membro della balena per stabilire se si era accoppiata, e rendendomi conto che così non era, perché le vene non erano turgide, ho capito che si era arenata per attirare tutta l’attenzione su di sé. Lo capisce?”.
Lo capivo? Si può comprendere il sacrificio? Non seppi rispondere. Forse ancora adesso non so che cosa rispondere. Ma sono sicuro di aver visto la generosità e tutto l’amore per la vita riflessi nell’occhio di una balena.
(Traduzione di Giuseppe Colangelo)