di Francesca Radaelli
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
Il 21 marzo, primo giorno della primavera dell’anno 1931, nasceva a Milano, in viale Papiniano 57, Alda Merini.
“La pazza della porta accanto”, dal titolo di uno dei suoi libri. “La poetessa della porta accanto” forse sarebbe una definizione migliore. La porta non può che essere quella del mitico appartamento al numero 47 di Ripa di Porta Ticinese. Il rifugio di Alda, pieno di quadri, di fotografie, di scarabocchi tracciati col rossetto sui muri. Le firme degli angeli, li definiva lei. Un rifugio che era sempre aperto: agli amici scrittori e musicisti, ma anche alle telecamere della televisione, alla sua Milano, al mondo, alle persone.
“La poetessa dei Navigli”, Alda Merini, morta in quella stessa casa nel 2009, era già una figura mitologica mentre era in vita. Per la sua storia travagliata segnata dai terribili ricoveri in manicomio, durante i quali venne sottoposta a tremendi elettroshock. Per i suoi tanti amori, i suoi mariti e i suoi amanti, vissuti sempre con una passione potente e smisurata e con grande sofferenza. Per la simpatia che la sua figura ispirava ogni volta che veniva intervistata e lasciava tutti senza parole per il candore del suo sguardo e delle sue parole. Per la dolcezza della sua voce quando con la cadenza milanese più lieve che si sia mai sentita leggeva le poesie che aveva scritto o cantava le canzoni che le piacevano.
Soprattutto per la Poesia, con la P maiuscola cui fu sempre unita e fedele, come lo sono i veri poeti, in ricchezza e povertà. Da quando a soli quindici anni scrisse i primi versi, talmente potenti da folgorare il critico Giacinto Spagnoletti, a quando pubblicò la raccolta che da molti è considerata il suo capolavoro: La Terra Santa. Quaranta poesie in cui ritorna come tema e motivo dominante il manicomio, un luogo infernale, ma assimilato alla Terra Santa dell’Esodo biblico. Un tema che ritorna anche in seguito nei suoi versi e nei suoi racconti. Perchè una volta che ci si è entrati, diceva Alda “il manicomio non finisce più. È una lunga pesante catena che ti porti fuori, che tieni legata ai piedi. Non riuscirai a disfartene mai”.
Se probabilmente ad accompagnarla per tutta la vita, oltre al ricordo tremendo degli innumerevoli ricoveri in manicomio, fu anche quello che gli esperti definirebbero un disturbo bipolare, quel che è certo è che dall’euforia e dalla tristezza scaturirono parole che furono capaci di incantare tantissime persone. Nella follia e nell’amore, nella tristezza e nella rabbia Alda fu sempre fedele alla Poesia che era in lei. E che in nessun momento volle separare da sè. Qualche verso probabilmente lo scrisse col rossetto anche sulle pareti della sua casa dei Navigli.
Leggendo o ascoltando le parole che scriveva è impossibile non amare questa donna che, così fragile, a queste parole ha scelto di darsi completamente.
Era davvero matta o solo più sensibile del ‘normale’? A volte viene spontaneo chiederselo guardando il suo sguardo sorriderci da una delle celebri fotografie che la ritraggono, così familiari e così enigmatiche. Era una pazza della porta accanto, o semplicemente una poetessa? Forse tutte e due le cose?
“Non cercate di prendere i poeti, perché vi scapperanno dalle dita”. Lei forse risponderebbe così.