di Francesca Radaelli
“Beato chi ci distacca dalle nostre croci” è l’affermazione da cui ha preso le mosse, lo scorso 28 aprile, il quarto incontro del percorso Caritas dell’ultimo lunedì del mese, presso la biblioteca del Carrobiolo di Monza. A pochi giorni dalla morte di papa Francesco il tema della ricerca della felicità è stato declinato attraverso l’aspetto della salute e della cura, grazie all’intervento – come ospite della serata – di Andrea Magnoni, medico neurologo presso RSD La Meridiana.
La serata si apre proprio con un ricordo di papa Francesco, di cui il giornalista Fabrizio Annaro riprende le parole pronunciate in occasione del giubileo degli ammalati: “Nella malattia diventiamo deboli, fragili, poveri nello spirito e forse proprio in questa povertà possiamo incontrare qualcosa di più grande di più misterioso che parla all’anima”.

Il cardinal Martini e la cura
Parole che risuonano in consonanza con il percorso del cardinale Carlo Maria Martini rispetto alla cura e alla malattia. In un messaggio video, il pedagogista Gerolamo Spreafico propone alcuni passaggi tratti da scritti e discorsi in cui il cardinale affronta, tra le altre, una questione che spesso interroga chi sta a fianco della persona malata: il problema di comunicare al malato la gravità della sua condizione.
“Si prospettano due possibilità, tanto per i medici quanto per i parenti”, rimarca Spreafico, “la prima è quella di non dire nulla per non essere crudeli, l’altra è quella invece di essere franchi e trasparenti. La posizione proposta da Martini è “educativa”: nella convinzione che in questo frangente non serva l’etica pura, bisogna volta per volta capire come accompagnare la persona. Un ulteriore passaggio pedagogico consiste proprio nello spiegare alla persona malata come sarà la sua vita, quali sono gli obiettivi”.
Un altro tema significativo su cui si sofferma Martini nei suoi scritti è l’organizzazione dell’ “ospedale-azienda”, inteso come luogo predisposto per accompagnare con qualità la persona, ma che deve rispondere a dei criteri economici, con il rischio di determinare una disuguaglianza tra chi può accedere alle cure chi non può.
Martini e la malattia
L’ultimo passaggio su cui si sofferma Spreafico è la testimonianza di Carlo Maria Martini in relazione alla sua malattia, il morbo di Parkinson, da cui è stato affetto per 16 anni, conservando una grande lucidità fino alla morte. “A quel punto”, sottolinea Spreafico, “Martini diventa maestro ancora una volta. Nei suoi scritti sottolinea l’importanza di evitare un eccessivo tecnicismo delle cure, un ‘accanimento’ e lasciare la persona nella sua libertà. Parla non di ‘sospensione di trattamento’ ma di ‘limitazione dei trattamenti’. Lui stesso per sé rifiuta l’eccesso di cannule nel naso rimanendo lucido fino all’ultimo momento pur con grandi problemi di disfagia e di respirazione. Con la sua stessa esperienza indica un ulteriore insegnamento: la possibilità di personalizzare l’accompagnamento alla cura ed eventualmente l’accompagnamento alla morte”.
Malattia e ricerca della felicità
La parola passa all’ospite della serata, il dottor Andrea Magnoni, neurologo che opera presso la RSD (Residenza sanitaria disabili) della cooperativa La Meridiana occupandosi di pazienti affetti da gravi malattie neurologiche, stati vegetativi e SLA, e di malati accolti nell’hospice.
Magnoni inizia proprio dal tema del ciclo di incontri, la ricerca della felicità: “Penso che per essere dei buoni malati e dei buoni curanti si debba ragionare, così come sulla morte, anche sulla felicità”. Magnoni cita il libro del medico e neurologo austriaco Viktor Frankl, che riesce a trovare anche all’interno dell’inferno del lager di Dachau un senso, e anche dei momenti di rapimento e di felicità: “Descrive i compagni che alla mattina quando guardano il cielo hanno un sorriso sulle labbra: ci dice che in qualsiasi situazione ognuno di noi può ritrovare un momento di espansione della coscienza, ammirando le cose belle. Del resto”, continua Magnoni, “anche Sant’Agostino diceva che “trovare” non significa arrivare al traguardo, ma già la dimensione del “cercare” è qualcosa che noi abbiamo trovato“.
Lo stesso Martini, come sottolinea Magnoni, “quando ha istituito la ‘cattedra dei non credenti’ ha radunato persone che parlassero del “cercare”, convinto che – riprendendo il filosofo Norberto Bobbio – non ci sono credenti e non credenti, ma ci sono pensanti e non pensanti”.
La ricerca felice nella relazione
In quest’ottica Magnoni si sofferma su tre concetti che permettono di rimanere in questa situazione positiva di ricerca: “metacognizione”, “ascolto attivo” e “autotelismo”.
“La metacognizione”, spiega il neurologo, “è la capacità che noi abbiamo di ragionare sulle nostre emozioni, capire perché le proviamo. È la base da cui, andando più in profondità, deriva l’empatia, cioè la capacità di provare la stessa emozione che un’altra persona ci trasmette”.
L’ascolto attivo, invece, si basa su una serie di regole molto precise: “non ti preoccupare di trarre delle conclusioni mentre ascolti”, “chiedi alla persona che ascolti di spiegare a te cosa pensa, in modo che tu possa capirlo”, “chi ascolta in modo attivo è una persona affascinata dai mondi possibili altri dai suoi”, “per essere un buon ascoltatore bisogna usare una metodologia umoristica”.
A questo proposito Magnoni legge un articolo di Laura Tangorra, affetta da SLA, pubblicato sulla rivista “Scriveresistere” della RSD della Meridiana dal finale è umoristico: Laura guarda i video della laurea di sua figlia e pensa alla frase del medico che le annunciò la SLA mentre era incinta e alla previsione secondo cui non avrebbe dovuto arrivare a vedere la figlia “nemmeno andare all’asilo”.
Per quanto riguarda l’autotelismo, Magnoni lo traduce come “lo scopo verso sé stessi”: “E’ quella cosa che descrive la situazione per cui mentre si è intenti a far qualcosa di cui si è appassionati, si entra in una dimensione in cui non ci si accorge del passare del tempo. Questi concetti”, conclude il neurologo, “consentono un percorso di conoscenza di sé stessi, che credo possa aiutare ad essere delle persone ammalate e che possa essere utilissimo anche per le persone che curano”.
L’hospice e il senso della cura
Nella seconda parte del suo intervento Andrea Magnoni si concentra sul il titolo della serata – “Beato chi ti toglie da una croce”, quindi “Beato chi ti cura” – raccontando come nasce l’idea di creare un luogo dedicato alle persone che stanno morendo.
Parla di Cicely Saunders, la fondatrice del primo “hospice”: dopo aver vissuto una storia d’amore con una persona morente, si convince della necessità di creare un luogo per chi ha bisogno di vivere il termine della propria vita in tranquillità. Divenuta medico, capisce che la morfina si può utilizzare anche preventivamente, fonda l’hospice St. Christopher a Londra e si rende conto, soprattutto, che il dolore del corpo è qualcosa da curare subito, poiché impedisce qualsiasi altro tipo di relazione. Magnoni sottolinea come, curando il dolore del corpo, Cicely Saunders inizia a vedere gli altri dolori, quelli psicologici, sociali, che coinvolgono tutta la famiglia del malato. Capisce che l’unico modo per affrontarli è creare un’equipe all’interno dell’hospice.
Il termine “cure palliative”, invece, spiega Magnoni, viene coniato da Balfour Mount, urologo e oncologo di Montréal che porta l’idea di Cicely Saunders in Canada, fondando la sua “unitè de soifs palliatifs”: si immagina l’equipe dell’hospice come un mantello, un pallium alla latina, che accoglie tutti, il malato e la famiglia.
Trovare le parole giuste
“L’hospice è uno spazio di attesa, sia per chi è curato sia per chi cura”, precisa Magnoni, raccontando alcuni episodi della sua attività in questo luogo. “Non è semplice pensare alla morte, credo che ognuno di noi abbia dentro di sé l’immagine della propria morte e comunicarla agli altri è difficile. In hospice ci troviamo spesso di fronte a una congiura del silenzio, si è consapevoli della presenza della morte ma non se ne parla”.
E rispetto al dilemma se rivelare o meno al malato la gravità della sua malattia, la prospettiva di Magnoni si basa ancora una volta sul racconto della propria esperienza a contatto con malati e famiglie: “Anche la comunicazione della cattiva notizia deve seguire determinate regole”, sottolinea. “Passa sempre attraverso la consapevolezza della propria malattia, a volte serve che il medico trovi l’occasione per sedersi vicino al malato e capire di quali parole la persona abbia bisogno”. Magnoni parla poi di proporzionalità delle cure e dimensione etica della cura, rifiutando il termine “accanimento” come inappropriato quando si parla di cure.
Le due frasi con cui chiude il suo intervento riassumono perfettamente lo spirito dell’hospice.
“Se curi la malattia puoi vincere o perdere, se curi la persona vinci sempre”.
“Non bisogna dare giorni alla vita ma vita ai giorni”.
Malattia e vita ‘profonda’
Alle parole di Magnoni seguono diversi interventi da parte delle persone del pubblico che portano la loro esperienza di vicinanza a persone malate. Un’esperienza di “ricerca” secondo lo spirito indicato dallo stesso Magnoni, caratterizzata da interrogativi e dubbi su come accompagnare al meglio le persone care verso la morte, ma anche da insegnamenti ricevuti proprio da queste persone.
Fabrizio Annaro fa riferimento in particolare alle persone malate di SLA incontrate presso le strutture della cooperativa Meridiana: “Mi hanno sempre comunicato una profondità di vita. Come se nella loro anima avessero trovato risorse che proprio questi momenti drammatici hanno permesso di portare alla luce”.
A chiusura della serata riecheggiano le parole di Isaia scelte da papa Francesco in occasione del giubileo degli ammalati: “Ecco, ora faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?”.
La lezione della malattia e della cura è in fondo proprio questa: in tutti i momenti della vita può germogliare qualcosa.
Qui il video completo della serata: