Uno degli aspetti più interessanti e promettenti della ricerca sulla malattia di Alzheimer è lo studio e l’analisi del ruolo e del coinvolgimento dei processi neuroinfiammatori nella patogenesi di questa devastante demenza le cui stime epidemiologiche prevedono 131,5 milioni di affetti nel mondo nel 2050.
Quello che è emerso recentemente, in questo ambito di ricerca al cui sviluppo ho contribuito con il mio lavoro, è che l’infiammazione del cervello nei malati di Alzheimer non è un epifenomeno o una conseguenza della malattia ma una delle sue cause principali; ciò presuppone che è possibile frenare la degenerazione delle cellule nervose contrastando i fenomeni infiammatori. Questo è quello che si è osservato nei modelli animali (topi) della malattia in un articolo pubblicato sulla rivista “Brain” dal gruppo di ricerca della Southampton University.
Nei cervelli con Alzheimer sono state osservate diverse alterazioni immunitarie, e confrontando cervelli umani sani e malati, si è riscontrato in questi ultimi, uno stato infiammatorio indicato dall’aumento e dalla attivazione delle cellule della microglia deputate al controllo della risposta immunitaria e infiammatoria nel cervello. Nel modello animale, un farmaco che riduce infiammazione e la microglia alla normalità, ha ridotto sia i danni ai neuroni, sia i disturbi di memoria e di comportamento, pur non evitando l’accumulo della proteina beta amiloide, una delle caratteristiche della malattia, dimostrando il ruolo attivo dell’infiammazione e consolidando potenziali strategie di cura.
Il farmaco utilizzato agisce su un recettore chiamato CSF1R, cioè una antenna captante presente sulla superficie della microglia, che regola appunto l’aumento e l’attivazione della microglia. Molecole simili sono già in sperimentazione sull’uomo per altri usi. Il ruolo importante dell’immunità è corroborata anche da un altro studio pubblicato su Nature Medicine da un gruppo del Weizmann Institute in Israele in cui si è dimostrato che un farmaco antitumorale che modula l’immunità ma con un altro meccanismo, frena, anch’esso la progressione dei danni cerebrali e del deterioramento cognitivo nei modelli animali di malattia di Alzheimer.
Roberto Dominici