di Roberto Dominici
La prevenzione possibile delle demenze. In Italia si contano 1,6 milioni di persone affette da demenza, delle quali 600.000 con Alzheimer. Altre 900.000 persone mostrano un decadimento cognitivo ancora lieve.
Si stima che globalmente, la presa in carico di questi pazienti equivalga a una spesa complessiva per anno compresa tra i 16 e i 18 miliardi di euro.
Dal punto di vista della sanità pubblica, la prevenzione e la riabilitazione rappresentano i due aspetti centrali per arginare il tremendo impatto epidemiologico di queste malattie. Alla fine del 2020 è stato istituito il Fondo per l’Alzheimer e le demenze con l’obiettivo di finanziare, per il triennio 2021-2023, iniziative finalizzate all’attuazione del Piano nazionale demenze; si tratta di 14,1 milioni di euro che sono stati assegnati alle Regioni e 900.000 euro all’Osservatorio demenze dell’Istituto superiore di Sanità (ISS) per avviare progetti riguardanti una o più delle cinque linee strategiche individuate: diagnosi precoce, diagnosi tempestiva, telemedicina, teleriabilitazione e trattamenti psicoeducazionali, cognitivi e psicosociali.
Nel 2024 ci si aspetta l’aggiornamento del Piano nazionale demenze che risale a 10 anni fa (2014) e il monitoraggio dei Percorsi diagnostico terapeutici assistenziali (PDTA) per le demenze che diventino prassi per tutti gli aventi diritto di tutte le Regioni.
A oggi purtroppo non è chiaro se e come il fondo sarà rifinanziato o quale sarà l’impegno della politica italiana nel futuro; purtroppo ancora oggi, in Italia la qualità e il livello di cure e di assistenza per le persone con malattie e per i loro caregiver resta disomogeneo e inadeguato tranne rare eccezioni.
Nel corso degli ultimi 30 anni come è emerso da un articolo scientifico, pubblicato nel 2020 sulla rivista Neurology, sulla base dei dati dell’Alzheimer Cohorts Consortium, nei paesi occidentali, Europa e USA l’incidenza dei disturbi neurocognitivi si è ridotta del 13% per decennio.
Le cause di questa riduzione si devono cercare almeno in due tipi di motivi: a) il maggiore controllo e riduzione dei fattori di rischio cardio e cerebrovascolari e b) il miglioramento complessivo degli stili di vita. Le cause di disturbo neurocognitivo maggiore come oggi è definita la demenza nel DSM V, il manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, redatto dall’American Psychiatric Association, sono molteplici.
Con questa definizione del DSM-V viene posta una maggiore attenzione sul declino rispetto a un precedente livello di prestazione e di funzionamento e permette di accentuare la natura acquisita e sporadica delle sindromi dementigene.
La principale e più comune di esse è la malattia di Alzheimer (50-60% dei casi), per la quale purtroppo a oggi non c’è ancora una cura risolutiva.
Una volta innescato, il processo neurodegenerativo non si può fermare, ma grazie ai progressi della ricerca oggi si può rallentare, aumentando gli anni di vita in autonomia della persona interessata con farmaci e riabilitazione cognitiva.
Ma soprattutto oggi sappiamo che possiamo provare a prevenire l’insorgenza di questi disturbi. Il primo concetto chiave è quello di riserva cognitiva, ovvero la capacità di una persona di recuperare le abilità perse a seguito di un danno cerebrale, di qualsiasi tipo esso sia.
Negli anni, la letteratura scientifica ha concluso che le persone che mantengono il cervello più “allenato” nel corso della vita, sin da giovani, hanno una maggior riserva cognitiva: la loro mente è più pronta a sopperire al danno.
Un’elevata scolarità protegge più di una bassa scolarità, come anche essere bilingui ed essere, o essere stati, musicisti.
Quando affermo che il primo farmaco è il libro o che studiare e mantenersi attivi è fondamentale per la salute, intendo proprio questo: con l’aumentare dei livelli di istruzione medi e l’invecchiamento attivo, si è osservato che le persone arrivano alla vecchiaia con un cervello più pronto e reattivo a compensare i primi segni di declino cerebrale.
Nel luglio 2020 è stato pubblicato su Lancet Neurology un lavoro seminale della letteratura scientifica sulle dinamiche di prevenzione delle demenze. Si tratta del risultato dell’analisi condotta da una commissione internazionale di esperti riunita che ha aggiunto tre nuovi fattori di rischio modificabili per lo sviluppo di declino cognitivo: consumo eccessivo di alcool, trauma cranico e inquinamento atmosferico, che si aggiungono ai nove già individuati nel 2017 sempre dalla commissione sempre su The Lancet.
Chi fuma, chi è meno istruito, chi ha problemi di udito, chi è obeso, chi soffre di depressione, chi è iperteso, chi è sedentario, chi ha il diabete scompensato, chi vive in isolamento ha un rischio maggiore rispetto agli altri di ammalarsi di un disturbo neurocognitivo. Stando ai risultati ottenuti, lavorando su questi 12 fattori di rischio si potrebbe prevenire o ritardare fino al 40% delle demenze.
Non è un caso che la demenza stia aumentando maggiormente nei paesi a basso e medio reddito rispetto ai paesi ad alto reddito, a causa dell’invecchiamento della popolazione e della maggiore frequenza di fattori di rischio potenzialmente modificabili. Pertanto una prevenzione primaria è possibile da realizzare riducendo o eliminando tutti i fattori di rischio modificabili.
Ragionare in termini di rischio è pensare in modo probabilistico, non in modo deterministico. Non significa che se ogni persona al mondo segue attentamente questi suggerimenti, allora nessuno svilupperà demenza, ma che, lavorando su questi 12 fattori, il rischio di svilupparla è molto più basso.
Il concetto principale è quello di passare dal concetto di diagnosi al concetto di valutazione del rischio, come è avvenuto nell’ambito delle malattie cardiocircolatorie, dove oggi l’obiettivo primario non è intercettare chi ha già avuto un infarto, ma chi è a rischio, per poter intervenire con la prevenzione.
L’associazione Ricerca Alzheimer (ARAL), già dal 2014 insieme alla Associazione APICOG (Associazione per la prevenzione dell’invecchiamento patologico) prima di tutti e con una programmazione pionieristica, con il patrocinio di diversi Comuni lombardi della Brianza, ha realizzato corsi di potenziamento e di stimolazione cognitiva per le persone neurologicamente sane a partire dai 55-60 anni che vogliono appunto potenziare o stimolare le proprie capacità cognitive, la memoria, l’attenzione, le abilità visuo-spaziali per mantenere proprio quella riserva cognitiva di cui parlavo prima.
Uno dei lavori di riferimento nell’ambito della prevenzione e della riduzione dei fattori di rischio è il progetto di ricerca FINGER. Si tratta di uno studio finlandese, coordinato dalla neuroscienziata professoressa Miia Kivipelto, che per primo è riuscito a dimostrare con dati solidi che un intervento multiambito/multidominio sullo stile di vita è in grado di modificare in positivo il declino cognitivo.
A un gruppo di persone è stato proposto un intervento multiambito sullo stile di vita, mentre un altro gruppo di soggetti, il gruppo di controllo, ha ricevuto consigli sanitari generali. Il periodo di intervento attivo è durato due anni e i partecipanti sono stati seguiti da visite di controllo 5, 7 e 11 anni dopo la fine dell’intervento.
Il primo gruppo ha potuto beneficiare di una guida dietetica (secondo le raccomandazioni nazionali), di training per l’attività fisica, di allenamento cognitivo e di monitoraggio e gestione dei fattori di rischio cardiovascolare. Il risultato è stato che queste persone hanno registrato miglioramenti maggiori in tutti i domini cognitivi studiati rispetto al gruppo di controllo: sulla funzione esecutiva, sulla velocità di elaborazione delle consegne e sulla memoria. Oltre ai benefici cognitivi, queste persone hanno mostrato una migliore qualità della vita e un numero ridotto di nuove malattie croniche.