di Claudia Terragni
“È Natale e a Natale si può fare di più” cantano le pubblicità dei panettoni. A Natale si può, ci si può sforzare un pochino, si può aggiungere quel pizzico di impegno per rendere il mondo un posto migliore, come la spruzzatina di zenzero in più che rende i biscotti degni di Babbo Natale. Basta poco: compiere un piccolo gesto d’amore non costa molto, le campagne umanitarie sono ovunque, sforzarsi di fare un sorriso all’odioso collega che non sopportiamo, lasciare una monetina al barbone fuori dal supermercato, fermarsi a scambiare due parole col ragazzo di colore di turno che cerca di propinarti i soliti libri africani. Dai, giusto perché è Natale, proviamo a fare quelli un po’ più buoni. Che se ci impegniamo magari il mondo diventa davvero come le pubblicità dei dolci.
Ma i panettoni sbagliano. Non è a Natale che è diverso, essere buoni non è uno sforzo. È il resto dell’anno che funzioniamo “male”. Non serve impegno per essere solidari, per provare empatia. Lo dice la scienza! I neuroni a specchio sono uno degli aspetti neuro scientifici più studiati degli ultimi anni. Se la scimmia vede lo scienziato mangiare una banana, nella sua testa si azionano gli stessi neuroni che si attivano quando è lei stessa a vivere quell’esperienza. Secondo il nostro cervello siamo noi che proviamo le sensazioni che vediamo provare un nostro simile.
E non è solo una questione di animali. Credo che i neuroni a specchio siano l’incubo di ogni infermiera del reparto di neonatologia: se un neonato inizia a piangere, cominciano a catena anche tutti gli altri.
L’uomo non è programmato per l’egoismo o per l’aggressività. Ci sarà anche l’istinto più violento ma non c’è solo quello. L’uomo è geneticamente predisposto alla socievolezza, agli affetti, alla compagnia. Per questo la gente ama il Natale: perché è l’unico periodo dell’anno in cui ci è permesso mostrare la nostra vera natura. Perché a Natale si riscoprono i legami più veri, la famiglia, gli amici, la solidarietà, l’aiuto reciproco. Dicembre è il solo mese dell’anno in cui l’utilitaristica società occidentale trasmette i valori più naturali dell’uomo. Possiamo non pensare solo al guadagno personale, ma ci è anzi richiesto di fermarci a preoccuparci del prossimo. Possiamo fare ciò per cui siamo stati programmati.
Che poi Babbo Natale sia nato proprio da quest’ottica consumistica e capitalistica poco importa alle nostre sinapsi.
Questa è la teoria che espone l’economista, attivista e saggista statunitense Jeremy Rifkin nel suo libro “La civiltà dell’empatia”.
Ma figurati! Hanno inventato il Grinch proprio perché alla gente il Natale non piace, nessuno è più buono neanche a Natale, figurati se siamo programmati per esserlo per tutto l’anno.
Sembra poco realistico? Utopico?
Il bello sta proprio qui: l’empatia non è un’utopia. Non c’è solidarietà in paradiso, non c’è senso di comunità nelle perfette vite degli spot pubblicitari, non c’è calore fraterno in un’incontaminata palla di vetro con la neve. L’empatia si basa proprio sulla realtà della vita umana, sulla sua innegabile imperfezione. Sulla sua fragilità che accomuna ogni essere vivente.
Quando, da bambini, iniziamo a capire che siamo individui unici e irripetibili, quando impariamo chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo, prendiamo anche coscienza del fatto che la vita è imperfetta: finisce. Qualsiasi essere può morire con una facilità disarmante. Può soffrire, proprio come me se mi sbuccio un ginocchio. Sulla mortalità e sulla sofferenza si fonda la solidarietà: la vita è un bene terribilmente prezioso, ogni momento è un dono proprio come quelli sotto l’albero. La mia vita è straordinaria proprio come la tua! Se tu soffri, soffro anche io con te, perché capisco cosa significhi avere una vita sola.
Perché in fondo veniamo tutti dalla stessa coppia di uomini originari, che da qualche parte in Africa, in un’era lontana hanno dato il via a tutto quanto.
Ma Rifkin non si ferma qui. È possibile che la nostra specie evolva da un’empatia “primitiva” a una estesa a tutto il genere umano? È possibile sentirsi accomunati da qualche legame tanto con mio fratello quanto con un senza tetto dall’altra parte del mondo? È possibile sentire l’intera biosfera come propria comunità?
Il cervello e la coscienza umana si sono evoluti nella storia, dall’homo sapiens, fino a oggi e ancora cambiano.
Lo sviluppo tecnologico ha determinato un cambiamento dell’encefalo così come dell’empatia: più si potenziano i mezzi di comunicazione, più si estende il concetto di famiglia ad una società allargata. Con l’avvento della scrittura e delle società agricole, il senso di comunità si è esteso dalla propria famiglia a tutto il villaggio. Con le grandi religioni si è ampliato ancora comprendendo tutti gli altri fedeli. Poi si è passati ai legami dettati dal senso di appartenenza alla stessa Nazione. Dai legami di sangue al senso nazionale. Un salto non da poco in termini di chilometri e persone che si sentono appartenere alla nostra stessa cerchia. E oggi? Ora che abbiamo addirittura internet? Le nuove tecnologie del mondo globalizzato potrebbero portare a un’empatia globale?
Dal momento del terremoto di Haiti del 2010, nel giro di tre ore sono iniziati ad arrivare aiuti umanitari da tutto il mondo. E non era Natale!
A Dicembre però c’è la giusta atmosfera per riscoprirsi. Tra una cioccolata calda e un abbraccio, tra un pacchetto rosso e una palla di neve, è il momento adatto per guardarsi dentro. Per
riconoscersi forse non totalmente insensibili, proprio come fece Scrooge in “A Chrisrmas Carol”.
Claudia Terragni
Sui neuroni specchio ricordo quello che ha scritto uno degli studiosi più importanti di questo ambito, Vilayanur S. Ramachandran nel suo saggio: MIRROR NEURONS and imitation learning as the driving force behind “the great leap forward” in human evolution; “I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia”
Roberto Dominici