di Francesca Radaelli
‘Faceva un freddo tremendo; nevicava, e saliva la buia notte; era anche l’ultima sera dell’anno, la vigilia di Capodanno. In quell’oscurità e con quel freddo, una bambina povera camminava per la strada, col capo scoperto e i piedi nudii…’
H.C. Andersen, La piccola fiammiferaia
Autore di fiabe famosissime e tradotte in oltre 80 lingue, Hans Christian Andersen nasce il 2 aprile del 1805 a Odense in Danimarca, figlio di un ciabattino. Al padre, poverissimo ma appassionato di letteratura, Andersen deve l’incontro con Le mille e una notte e con il teatro, alla madre, analfabeta, il contatto con il mondo delle leggende popolari tramandate oralmente. Da bambino amava inventare storie e improvvisarle con le sue marionette, era un solitario ed evitava i coetanei, vergognandosi tra l’altro del proprio aspetto fisico, proprio come quel brutto anatroccolo che diventerà uno dei personaggi più famosi delle sue fiabe.
E, malgrado la miseria, in un mondo di fiaba il piccolo Andersen pensava di vivere realmente, come racconterà ormai adulto in un’autobiografia dal titolo che dice tutto: ‘La fiaba della mia vita’. Un po’ della sua vita si ritrova in effetti nei temi ricorrenti all’interno delle fiabe che scrisse. Rimasto orfano a soli undici anni, cominciò a lavorare per necessità, ma ben presto si trasferì a Londra, inseguendo il sogno di fare l’attore. Il primo successo letterario arrivò nel 1835 con il romanzo L’improvvisatore, scritto dopo un viaggio in Italia.
Poi vennero le fiabe. Quelle divenute immortali, ancora lette e raccontate ai bambini di tutto il mondo. Tra i titoli più noti ‘La principessa sul pisello’, ‘La sirenetta’, ‘I vestiti nuovi dell’Imperatore’, ‘Il brutto anatroccolo’, ‘La piccola fiammiferaia’, ‘Il soldatino di stagno’ , ‘La regina delle nevi’.
Alcune delle storie per bambini narrate dallo scrittore danese affondano le loro radici nella tradizione popolare, ma per la maggior parte sono completamente originali. Andersen riversa in questi racconti, che molto spesso, a differenza per esempio delle fiabe dei fratelli Grimm, hanno per protagonisti degli animali, i temi che più gli stanno a cuore, trasfigura nelle vicende vissute dai suoi personaggi l’emarginazione e il senso di esclusione che lui stesso ha sperimentato su di sé. Molti dei suoi personaggi sono dei ‘diversi’ – basta pensare al brutto anatroccolo, alla sirenetta, al soldatino di stagno – e spesso restano tali anche alla fine della storia.
Nelle fiabe di Andersen, che pure sono state scritte per un pubblico infantile, il lieto fine non è obbligatorio: la piccola fiammiferaia muore di freddo, la sirenetta non può vedere realizzato il suo amore per il principe, il soldatino di stagno brucia nel fuoco. Certo, la morte è sempre descritta in una trasfigurazione fantastica, come la via verso un paradiso cristiano in cui tutto è dolce e i sogni si realizzano. Ma sempre di morte si tratta e spesso i genitori si sono trovati in difficoltà, non se la sono sentita di raccontare fiabe ‘che finiscono male’, magari un po’ macabre, come nel caso di ‘Scarpette rosse’, in cui la protagonista si fa amputare i piedi per liberarsi delle scarpe stregate.
E spesso gli aspetti più tremendi di questi racconti oggi vengono attenuati con versioni edulcorate, come quelle proposte dai cartoni animati Disney o dai libri illustrati.
Probabilmente Andersen non avrebbe approvato. Perché, in fondo, nelle fiabe, come nella vita, eliminare ‘a priori’ dolore e sofferenza, ed esigere un lieto fine a tutti i costi, non ha poi molto senso.