di Marco Riboldi
Antisemitismo vuol dire, evidentemente, ostilità preconcetta contro gli Ebrei. Detto così sembra tutto chiaro, ma in realtà con il termine vengono indicati atteggiamenti non sempre omogenei e univoci.
Nel corso della storia, l’antisemitismo ha avuto connotati differenti che hanno portato a comportamenti e conseguenze di diverso tipo.
Così, possiamo prendere avvio dalla ostilità derivante dalla differenza religiosa e da un generico essere culturalmente una eccezione nel panorama omogeneo di una nazione o di una regione: non dobbiamo infatti dimenticare che, almeno fino all’apparire di una certa presenza musulmana (cosa che prima del ‘900, riguardò aree piuttosto ristrette del nostro continente) gli unici “altri” presenti nelle società europee con una avvertibile consistenza numerica erano appunto gli Ebrei, che avevano una loro lingua, una loro cultura, loro usi e costumi, una loro religione.
Ma soprattutto, gli Ebrei costituivano una classe sociale, dedita soprattutto al commercio e alla finanza, categoria economica, quest’ultima, che in passato aveva labili confini con l’usura, sia nei dati di fatto, sia nella mentalità corrente.
Concorrevano a questa costituzione degli Ebrei anche come classe sociale diversi fattori, quali la proibizione per loro di essere proprietari terrieri e la diffusa diffidenza del mondo cristiano per gli affari finanziari.
Ancora più recentemente, l’intreccio tra ostilità nei confronti dello Stato di Israele, interessi economici in Medio Oriente, asprezza del confronto tra molta parte dell’islamismo e Israele produce una nuova ostilità.
Potremmo definire a grandi linee, gli antisemitismi come divisi in due grandi epoche.
Fino al 1800, vediamo susseguirsi fasi di rifiuto e discriminazione legate soprattutto alla questione religiosa: nasce l’obbligo di portare un segno distintivo sui vestiti, si preparano nelle città quartieri specifici per i “Giudei” (nasce a Venezia il nome di Ghetto, motivato dal fatto che il primo di questi quartieri fu edificato in un luogo chiamato “geto”, perché lì un tempo sorgeva una vecchia fonderia nella quale si faceva il “geto”, la colata di metallo fuso) ecc.
Non mancano persecuzioni ed espulsioni (ad esempio nella Spagna di fine ‘400), né la progressiva emarginazione dalla vita economica, soprattutto da quando la nascita delle banche (e in genere della finanza europea) rende non più indispensabili i servigi degli Ebrei in questo settore.
Di fatto, resta al mondo ebraico solo la attività del piccolo commercio e poco altro.
Nell’Europa Orientale questo processo è più lungo, date le caratteristiche economiche della zona, e vede inoltre una presenza significativa degli Ebrei nella classe degli amministratori, suscitando una sorda ostilità dei contadini, che vedono negli Ebrei lo strumento dello sfruttamento della plebe da parte dei proprietari terrieri.
Inoltre, la progressiva emarginazione, se non l’espulsione, degli Ebrei da molta parte dell’Europa Occidentale costituisce un fattore importante per l’insediamento massiccio nell’Europa dell’Est, soprattutto in Russia, Ungheria e Polonia (usiamo i nomi attuali degli stati, indipendentemente dalle realtà politiche dell’epoca, che vedevano, per esempio, molte regioni ricadere sotto l’Impero Asburgico).
Nella seconda metà del XIX secolo le cose cambiano.
In molti stati europei si afferma un forte principio di emancipazione degli Ebrei e di integrazione nella realtà sociale e culturale degli stati dove vivono.
Sul piano giuridico, gli Ebrei godono degli stessi diritti di tutto il resto della popolazione, possono frequentare le stesse scuole, intraprendere le professioni che desiderano, diventare, insomma, cittadini come tutti gli altri.
L’antisemitismo si nutre di questa parità raggiunta: l’”Ebreo” diventa una minaccia perché non si distingue più dagli altri, penetra nella società e, agli occhi dei razzisti, ne contamina la purezza.
Insomma, paradossalmente, il diventare più simile agli altri costituisce, agli occhi di qualcuno, un pericolo.
Ancora più paradossalmente, negli stessi tempi l’antisemitismo si nutre anche della situazione contraria: dove (per es. in Polonia) rimane una forte comunità ebraica che si tiene nettamente distinta dal resto della popolazione (il villaggio abitato quasi solamente da Ebrei – lo shtetl – dove si vive secondo le regole della religione applicate in modo piuttosto rigido o il quartiere ebraico della città) proprio il permanere di questa differenziazione viene invocato come motivo della ostilità e come giustificazione delle periodiche oppressioni.
Inutile qui ricordare cose notissime come i celebri “pogrom”, ovvero le ricorrenti spedizioni punitive nei confronti dei villaggi ebraici che venivano messi a ferro e fuoco invocando un pretesto qualsiasi.
Sappiamo il tragico epilogo di tutto questo: in questo scritto però non toccherò il tema della Shoà, di cui già altre volte abbiamo scritto.
Preferisco ricordare che l’antisemitismo ha avuto un certo impulso anche negli Stati Uniti, dove molti Ebrei emigrarono negli anni seguenti la prima guerra mondiale: la presenza nella società americana di molti Ebrei “importanti” in segmenti molto visibili della realtà quali il cinema, le scienze, i giornali, le banche, alimentò una ostilità che venne diffusa sia dai razzisti del Ku Klux Klan, sia da personaggi come H. Ford, che scatenò i suoi giornali in vere e proprie campagne antisemite.
La crisi economica del ’29 accentuò questo fenomeno, che ebbe un deciso ridimensionamento quando le persecuzioni fasciste portarono un’ondata di simpatia nei confronti degli oppressi che cercavano rifugio oltreoceano. Tuttavia, l’antisemitismo non scomparve e ancora oggi se ne trovano tracce non indifferenti nella società americana.
Un ultimo accenno merita la situazione nella Unione Sovietica: lì la lotta contro la cultura ebraica si nutrì di diversi fattori. Gli Ebrei erano in larga misura piccoli borghesi che all’inizio della Rivoluzione vennero visti come “naturalmente” ostili al comunismo, in ossequio alla idea marxista secondo cui la appartenenza ad una classe sociale determina una coscienza specifica (e questo nonostante molti dirigenti del Partito fossero Ebrei: l’esempio più famoso è quello di Trotskij).
In seguito la lotta antireligiosa e il desiderio di limitare ogni cultura “nazionale” ( al pari degli Ebrei vennero colpiti nella loro cultura popolare vari popoli della Unione) alimentarono la emarginazione quando non la persecuzione.
Come si vede il tema è molto vasto e non è possibile certo trattarlo ampiamente in questa sede.
Ho voluto solo dare un’idea della complessità del fenomeno che viene definito genericamente come “antisemitismo” e che ha portato ai disastri del XX secolo.
Detto che sarebbe interessante dedicare una ulteriore riflessione alla storia dell’antisemitismo in Italia, che qui non tratto, mi resta da aggiungere una avvertenza.
Oggi l’antisemitismo, malapianta mai sradicata, si mescola con una diffusa ostilità di molti nei confronti dello Stato di Israele.
Essere critici nei confronti della politica dello Stato di Israele, essere contrari alla esistenza stessa di tale Stato, essere antisemiti per ragioni religiose, culturali, di ignoranza … non è tutto uguale, non è tutta la stessa cosa.
Ma di fatto, il pericolo di una fusione tra le varie visioni è molto forte : occorre che si vigili e che si educhi attentamente alla distinzione tra i piani, perché c’è chi vuole alimentare l’antisemitismo per ragioni ideologiche, chi perché non ha alcun interesse alla presenza dell’unica nazione a democrazia moderna nell’area del Medio Oriente, chi semplicemente rimesta nel torbido.
E alla fine, quando la ragione dorme, vengono generati mostri.