Argentina oggi. Una normalità dai confini incerti

imagesdi Alfredo Somoza

A distanza di dodici anni dalla grande crisi sistemica del 2001, l’Argentina condotta prima dallo scomparso Nestor Kirchner e poi da sua moglie Cristina Fernandez, ha recuperato una stabilità economica sofferta, difficile, ma che incredibilmente, visto il punto di partenza, tiene. Parte del merito per la stabilità recuperata va al ministro dell’economia dei primi anni, Roberto Lavagna, l’artefice dell’accordo con i grandi creditori dell’Argentina e della soluzione (tranne che per i risparmiatori) della vicenda dei tango-bond, onorati soltanto in parte da Buenos Aires. Forse ancora più merito va dato però al ciclo economico favorevole per tutta l’America Latina, con i prezzi delle materie prime energetiche e agricole in crescita costante.

La tassa che lo Stato incassa dagli esportatori di grano e carne (circa il 20% del valore esportato) ha superato recentemente i 15 miliardi di dollari all’anno, praticamente il costo delle politiche di welfare applicate dall’attuale governo in materia di sussidio di disoccupazione, sostegno alle famiglie di minori risorse e pensioni minime. Politiche che hanno avuto il merito di “spegnere” l’incendio sociale in un paese che in pochi anni si era trovato con circa il 40% della sua popolazione precipitata nei gironi della povertà estrema.

Le sostituzioni delle importazioni in questi ultimi anni sono servite a ridare fiato al mercato interno e a creare dei posti di lavoro, ma per un Paese che storicamente si muove sul piano dell’economia globale, non è bastato. La mancanza di investimenti in infrastrutture per i trasporti e la produzione, sommato al crollo degli investimenti esteri, fa sì che si consideri praticamente esaurito il “rimbalzo” dell’economia del dopo crisi, che ha prodotto per quattro anni tassi di oltre il 7% di crescita annua.

La principale critica che oggi viene rivolta alla presidente è la mancanza di una strategia di lungo respiro e l’occultamento dei dati che parlano di un’inflazione che ha superato il 20% annuo. Con quali strumenti si può spingere un modello basato sulla produzione nazionale in un paese che ha ceduto le principali leve della sua economia al capitale multinazionale? Su questo tema non ci sono state risposte e, cosa ancora più preoccupante, non si è tornati indietro dalle conseguenze del modello neoliberale ereditato dagli anni ’90.

Le compagnie privatizzate continuano a fare il bello e il cattivo tempo, fornendo servizi sempre più scadenti, mentre lo Stato continua a sovvenzionarle perchè mantengano le tariffe basse. Continuano, dunque, a incassare dallo Stato e dai clienti dando fondo a quanto ricevuto al momento della privatizzazione. L’esempio dei treni, ormai ridotti a carri bestiame, ma ancora sovvenzionati, è l’esempio più lampante della mancanza di volontà di rivedere quanto deciso durante il decennio del presidente, sempre peronista, Carlos Menem.

Questo quadro nel quale cominciano a prevalere più le tonalità grigie, senza dimenticare mai il punto di partenza, diventa più buio se parliamo di energia. L’Argentina, che regalò l’estrazione petrolifera alla spagnola Repsol, dovrà fare i conti tra pochi anni con la fine dell’oro nero e con le difficoltà crescenti con la vicina Bolivia per il rifornimento di metano.  La recente nazionalizzazione della compagnia petrolifera non ha risolto i problemi legati, anche qui, alla mancanza decennale di investimenti per rinnovare le infrastrutture.

In attivo, e non è poco, i Kirchner hanno ridato dignità ai desaparecidos della dittatura, riaprendo i processi per violazioni dei diritti umani a carico dei militari e chiedendo, per la prima volta, perdono come rappresentanti dello Stato ai parenti delle vittime, cancellando le leggi vergogna che negli anni avevano scagionato i responsabili dei crimini. Su questo punto il parere delle associazioni per la difesa dei diritti umani sono unanimi.

Niente si può capire però del processo argentino recente senza avere presente il “laboratorio” sociale nel quale è cresciuta e maturata una protesta diventata travolgente proposta di modello alternativo. Mentre lo Stato argentino si dissolveva spezzando ogni legame sociale, produttivo e di classe, la gente si organizzava. E non è stato compito di poco conto, dopo la scientifica opera di annientamento di ogni tipo di organizzazione popolare messa in opera dalla dittatura militare degli anni ’70 in poi.

Nacquero così negli anni ’90  mille forme di autogestione di base, diventate il nuovo tessuto sociale e politico dell’Argentina del default. Operai che hanno occupato fabbriche abbandonate alla chetichella da imprenditori-predoni scappati con i loro capitali a Miami e che si “inventano” l’autogestione per continuare a produrre e a garantirsi uno stipendio creando una rete di “fabricas recuperadas” di decine di stabilimenti nelle principali città del paese. Gli abitanti delle baraccopoli che autogestiscono “comedores populares” dove, insieme, poter garantire un piatto caldo ai bambini e poi fare politica per cambiare le condizioni di vita.

I piqueteros, movimenti di disoccupati organizzati che bloccano strade chiedendo lavoro e assistenza verso chi ha perso tutto, inaugurando un tipo di protesta finora sconosciuta in Argentina. Il circuito del “trueque”, il baratto di oggetti, alimenti e servizi nel quale non esiste la moneta e dal quale dipendono decine di migliaia di famiglie. I cartoneros, l’ultima frontiera della dignità prima del baratro della delinquenza, un’altro esercito di disoccupati che ogni notte perlustra i sacchi dell’immondizia delle città recuperando la carta, il vetro, l’alluminio, e ogni cosa si possa mangiare o vendere.

E ancora i centri sociali giovanili, le radio alternative, i movimenti di critica al modello agricolo degli ogm, i gruppi indigeni. Tutte forme spontanee di organizzazione, ma con un unica strategia: non permettere che si possa ripetere mai più ciò che è successo negli anni del neoliberismo. Milioni di persone che diffidano dei partiti politici anche se non riescono a costruire un’alternativa che sia in grado di imporsi nelle urne, ma che controllano, criticano e fanno pressione, perché si passi da una politica di esclusione ad un nuovo modello sociale nel quale si riallaccino i rapporti comunitari spezzati da decenni di dittature e neoliberismo. E la politica tutta, deve fare i conti con questa storia recente.

Alfredo Somoza è presidente di ICEI – Istituto Cooperazione Economica Internazionale –   www.icei.it ;  direttore di www.dialoghi.info.it  e collaboratore della rubrica esteri di Radio Popolare;  Il suo blog  si trova al link: www.alfredosomoza.com

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