di Francesca Radaelli e Isabella Procaccini
Sembra un quadro di Magritte. È questa la prima impressione non appena si apre il sipario e ci troviamo di fronte ai due ‘uomini con la bombetta’ protagonisti di Aspettando Godot, il capolavoro del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett diretto da Maurizio Scaparro.
Una produzione del Teatro Carcano di Milano, lo spettacolo in scena al Teatro Manzoni di Monza fino a domenica 18 gennaio, è un allestimento decisamente riuscito, che, fedele allo spirito di Beckett, immerge l’intera vicenda in un’atmosfera onirica e surreale. Un albero scheletrito si staglia sul palco, una luce irreale pervade la scena, finché a un certo punto una grande luna piena fa la propria apparizione nel brillante cielo notturno, per ben due volte, ad annunciare il sopraggiungere della notte e, con essa, la fine del primo e poi anche del secondo atto. E dell’attesa, per il momento.
“Che cosa aspetti?”. “Aspetto Godot”. Questa è forse l’unica certezza rimasta allo smemorato Estragone-Gogo e al tormentato e frenetico Vladimiro-Didi, interpretati rispettivamente da Antonio Salines e Luciano Virgilio, assai convincenti nella caratterizzazione. I due vagabondi infelici, confusi e pieni di dubbi, si ritrovano come imprigionati sulla scena, in una sorta di quadro surrealista fuori da ogni logica e con un tempo tutto proprio. Andarsene non è possibile, come viene ribadito più di una volta, per via dell’appuntamento con Godot, che arriverà da un momento all’altro e offrirà loro un posto caldo e accogliente in cui passare la notte.
Se rimane il mistero su chi sia davvero, o cosa rappresenti, questo Godot – Dio? Gesù? Il tempo? La morte? O forse la fine del lungo spettacolo (che dura oltre due ore)? – non possiamo invece non identificare noi stessi in Gogo e Didi, “creature deboli e immortali”, che, come sottolinea il regista nella presentazione dello spettacolo, “vivono in un lontano e vicino (a loro e a noi) Novecento”, e sono ancora decisamente attuali negli anni Duemila. I due vagabondi, vuole dirci Scaparro, altro non sono che esseri umani come noi catapultati in un mondo privo di senso (come il nostro?), in cui ciascuno trascorre il tempo ad aspettare sempre lo stesso Godot, che mai arriverà. Perché la realtà è questa, e in fondo lo sanno anche i due protagonisti: Godot non arriverà mai. Eppure attendere la sua venuta lì, al di sotto di quel salice spoglio che “ha finito di piangere”, è l’imperativo a cui è impossibile sottrarsi, l’unica cosa che non può essere messa in discussione.
Così, pur avendo accarezzato l’idea di impiccarsi al ramo tanto invitante dell’albero presente in scena, i due amici si danno da fare per animare lo spazio e il tempo in cui, una volta entrati sul palco, si trovano rinchiusi. Si susseguono così siparietti comici e stralunati. E rappresenta quasi un diversivo l’irruzione in scena dell’arrogante Pozzo (Edoardo Siravo), padrone tirannico che tiene legato al guinzaglio il servo Lucky (Enrico Bonavera), obbediente a ogni suo ordine, compreso quello di dare spettacolo, ballando o “pensando”, e intrattenere così i due mendicanti.
Il dramma è in due atti ma la scena non cambia: il luogo è sempre quello dell’appuntamento, con la differenza che ora qualche foglia è spuntata sui rami del salice, e che sul palco sono rimaste, dall’atto precedente, le scarpe di Gogo e il cappello di Lucky. L’inquieto Vladimiro rientra in scena cantando una filastrocca che va avanti all’infinito (“Quattro cani in cucina” il titolo) ma dimenticandosi a un certo punto le parole. È un po’ quello che accade in scena: si ripresenta la stessa situazione – l’attesa di Godot – e gli stessi personaggi, anche se ora Pozzo è cieco, Lucky muto e la corda che li lega più corta. Insomma, sopra a quel palcoscenico, ai piedi di quel salice, continuano ad accadere le stesse cose, e probabilmente sono sempre accadute, anche prima del primo atto. L’unica via d’uscita sarebbe l’arrivo di Godot. Ha detto che verrà domani, annuncia il ragazzo-messaggero al termine di ogni atto.
E quando il sipario si chiude Didi e Gogo sono ancora lì, fermi, ad aspettare.
Francesca Radaelli
Un pensiero su ‘Aspettando Godot’
di Isabella Procaccini
Le lacrime del mondo sono immutabili. Non appena qualcuno si mette a piangere, un altro, chi sa dove, smette. E così per il riso. Non diciamo troppo male, perciò della nostra epoca; non è più disgraziata delle precedenti. Ma non diciamone neanche troppo bene.Non parliamone affatto.
(Samuel Beckett, Aspettando Godot)
Non c’è da stupirsi se, uscendo dal teatro, la gente si chieda che diavolo abbia visto. Quello che rimane è un profondo spaesamento, un vorticoso succedersi di immagini e situazioni che si ripetono uguali a se stesse. Un continuo flusso di parole che non portano da nessuna parte; un continuo flusso di domande a cui spesso è negata una risposta. Azioni, immagini, parole… credo che sia inutile cercare di capire cosa realmente succeda sulla scena. Credo sia inutile cercare di capire cosa rappresentino Didì e Gogò o Pozzo e Lucky e chi sia in realtà Godot. Se il sentimento che rimane è quello dello spaesamento e se ci si continua a chiedere perché, allora l’obbiettivo è raggiunto. Quello che resta sono grandi temi su cui riflettere: il tempo, la felicità, noi stessi, il destino. Restano le parole di Gogò all’inizio del secondo atto: “cerchiamo qualcosa per darci l’impressione di esistere” e ci rendiamo conto di quanto sia attuale il grande Teatro, di come sia sempre uguale lo struggimento dell’essere umano, il suo continuo cercare un posto, un ruolo, la felicità. Si possono guardare le opere di Goldoni, Molière, Cechov, De Filippo, Brook oppure Samuel Beckett, al centro vi troveremo sempre l’Uomo e il suo rapporto con il mondo, a prescindere dal tempo e dallo spazio. Ecco perché amo il Teatro.
Isabella Procaccini
© fotografie di Andrea Gatopoulos