di Francesca Radaelli
“Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano”.
Per Beppe Fenoglio la prima delle due date cui fa riferimento questa frase di uno dei suoi racconti più celebri, I ventitrè giorni della città di Alba, è il 1° di marzo del 1922, giorno in cui proprio ad Alba, nelle Langhe piemontesi, venne al mondo il futuro ‘partigiano e scrittore’. Suo padre era un garzone di macelleria e lui, il piccolo Beppe, uno scolaro diligente e promettente. La madre volle iscriverlo al ginnasio e lui si innamorò dell’Inghilterra, o meglio della lingua, letteratura cultura e valori del paese di Oliver Cromwell, una sorta di luogo mitico in cui peraltro durante la sua vita non metterà mai piede.
Ma, come si scopre solo leggendo, la lingua di quel paese – all’epoca comprensibilmente più ‘lontano’ rispetto ad ora – sarà sempre ben presente, viva e vivace nei romanzi e racconti che Fenoglio inizierà a pubblicare anni dopo. Una questione privata, Primavera di bellezza, Il Partigiano Johnny. Testi che, se non completamente autobiografici, sono però figli dell’esperienza di partigiano vissuta negli anni della giovinezza, e del rapporto strettissimo con la natura e la gente della terra in cui lo scrittore era nato, che costituì l’inevitabile scenario e orizzonte della guerra da lui combattuta in prima fila nella Brigata Belbo dei ‘badogliani’ del 1° Gruppo Divisioni Alpine.
Le Langhe raccontate nella lingua inedita de Il partigiano Johnny, un miscuglio di italiano ricercato, talvolta dialetto, ed espressioni anglosassoni (che vanno a modificare persino la sintassi delle frasi), a qualche critico dovettero far storcere un po’ il naso – come d’altronde anche il racconto ‘fenogliano’ di una Resistenza condotta non da eroi perfetti ma da esseri umani con difetti e debolezze.
“Sentiva acutamente, morbosamente, la mancanza della radio. Prese a smaniare per sentire la voce di Candidus, gluttoning on his own accent. Quasi ogni giorno saliva suo padre, for several requests-annotation e riferirgli le notizie locali e nazionali, quelle del bisbiglio e della diffusione radiofonica”.
La lettura di passaggi come questo all’interno del Partigiano, romanzo rimasto incompiuto per via della morte a soli 41 anni del suo autore, poteva indubbiamente provocare un effetto straniante. Come si fa a narrare in una lingua tanto artificiale vicende, uomini, luoghi e tempi ancora fortemente impregnati di cultura popolare e dialettale? Eppure è anche attraverso una ‘forma’ così particolare che il grande scrittore piemontese ha voluto raccontare la sua Resistenza personale, non un’epica della Resistenza, ma la Resistenza così come lui l’aveva vista e vissuta, facendo trasparire anche in questo modo le istanze morali che lo avevano portato a unirsi a quei partigiani che, malgrado errori e violenze, lui era fermamente convinto combattessero dalla parte del giusto. Quella parte che un tempo era stata anche la parte di Oliver Cromwell, colui che in nome della libertà aveva fatto tagliare la testa al re di Inghilterra.
In nome di quella stessa libertà, un ideale di libertà concepito in modo molto ‘anglosassone’, anche Beppe Fenoglio scelse di essere fino in fondo prima partigiano e poi scrittore. Scelse di raccontare la ‘sua’ Resistenza, un po’ in italiano un po’ in inglese perché entrambe le due lingue facevano ormai parte del ‘suo’ modo di pensare.
E nei suoi racconti volle dare spazio a qualcuna di quelle tante ‘questioni private’ e personali che in ogni tempo attraversano il corso della Storia.
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