di Paola Biffi
Borgo Mezzanone è un agglomerato di casupole e bar in cui si incastrano pochi abitanti, una frazione di Manfredonia da cui però dista circa 40 km. Per arrivarci bisogna attraversare le campagne pugliesi del Tavoliere,
ci si allontana dal mare, dalla spiaggia, dalle vacanze, si raggiunge un luogo deserto e dimenticato.
Qui, lontano dalle parole e vicino alla terra, si gioca ogni giorno il gioco del Mondo: a Borgo Mezzanone risiedono 400 cittadini italiani e vivono circa 3500 migranti, che ogni giorno lavorano sfruttati nei campi di pomodori, raccolgono i frutti dell’orgoglio italiano per 4 euro all’ora.
Chi riesce ad essere riconosciuto come richiedente asilo viene accolto nel C.A.R.A., che dovrebbe ospitare 700 migranti regolari ma ad oggi ne ospita circa 1500, chi invece non è riuscito ad entrare nei canali istituzionali di accoglienza, vive, dorme, abita “La Pista”. Esattamente davanti al C.A.R.A. per la legge che “l’erba del vicino è sempre più verde”, si trova un “insediamento informale”, meglio conosciuto come ghetto, chiamato “Pista” perché occupa tutta la lunghezza di un ex base aerea NATO, dove si trovano tra i 1500 e i 2000 migranti.
Sono inciampata in Borgo Mezzanone attraverso il Campo di volontariato Io Ci Sto promosso dai Padri Scalabriniani, che da anni si impegnano nella zona nel nome dell’Accoglienza, dell’apertura di tutte le porte fisiche, mentali, religiose, nel nome dell’Altro.
Sono stata con i volontari una settimana in Pista e a San Severo, dove si trova una casa sequestrata alla mafia che oggi ospita 150 ragazzi, abbiamo dato via a un corso di italiano e a una ciclofficina, così da poter dare un briciolo di autonomia e libertà, sia culturale che fisica.
Nessuno conosce La Pista come nessuno conosce Borgo Mezzanone, eppure tutti dovrebbero farlo: di fronte al senso di impotenza che ho sentito venerdì, quando abbiamo dovuto lasciare il posto ad altri volontari, ho risposto dandomi la missione di far conoscere i 2000 ragazzi che ho incontrato, le loro case, le loro storie, a chiunque.
È difficile per una ragazza di vent’anni sentirsi impotente, in questi anni dove tutto ancora ci sembra possibile, davanti all’ingiustizia è forse la cosa più dolorosa, sembra una sconfitta: sono stati i migranti a insegnarci che per raccogliere, per costruire, per vincere sull’impotenza bisogna prima restare soli, perdere, restare umani nella dignità e nel rispetto. Penso alle parole dei telegiornali, ai discorsi dei politici, forse la chiave sta proprio nell’accettare di perdere: se parti dal niente, dall’umiltà, poi ogni mattone è un grattacielo, ogni stretta di mano è un accordo internazionale, ogni “ciao, tutto a posto?” può salvare una vita.
Fuor di retorica, stare sulla pista provoca un senso di impotenza ma anche di profonda responsabilità: è una continua sfida ai propri pregiudizi, ai propri limiti, ti fa comprendere quanto poi in sé l’accoglienza è, o dovrebbe essere, qualcosa di quotidiano, di tutti noi.
Il gioco di trovare il colpevole ha i dadi truccati: accogliere è prima di tutto un fatto personale, tanto quanto i muri prima di essere fisici, europei, sono mentali, sono nostri, e conoscere e impegnarsi ad abbatterli è compito di tutti.
Ogni giorno per raggiungere la Pista da Manfredonia noi volontari attraversavamo i campi aridi pugliesi su un piccolo pullman da 9 posti, spesso eravamo accaldati, c’era chi approfittava del viaggio per riposare gli occhi, chi cantava, io spesso mi ritrovavo a guardare fuori dal finestrino. Ho visto tante strade, ne ho attraversate alcune, altre ho aiutato a percorrerle, grazie alle ruote nuove che ho dato ai migranti.
Cos’è poi un migrante se non un uomo e una strada?
Quando ho chiesto a Mohammad, un ragazzo del Senegal, perché sei venuto in Italia, mi ha risposto “per prima cosa perché l’Italia fa parte del mondo”, l’Italia è una strada, sono persone da incontrare e orizzonti, i più belli del Mediterraneo.