di Matteo Galbiati
Il 18 aprile 1768 moriva, nella nativa Venezia, uno tra i maggiori interpreti, forse il vero padre, del genere della “veduta veneta”: Zuanne (Giovanni) Antonio Canal, che tutti conosciamo semplicemente col soprannome di Canaletto.
Inizia giovanissimo la sua avventura artistica aiutando il padre e il fratello, anch’essi artisti, a dipingere i fondali e le scenografie delle rappresentazioni per i teatri veneziani. Un approccio all’arte, questo, che ha lasciato fermentare la sua passione per le grandi composizioni, attraverso uno sguardo che sa dilatare i confini dello spazio reale genera una vera e propria messa in scena del “paesaggio”.
Il passo decisivo lo compie, però, con il soggiorno a Roma (1718-20), quando, al seguito del padre sempre impegnato nel lavoro per il teatro, ha modo di vedere e apprezzare le opere dei grandi vedutisti attivi nella città eterna. Sul loro esempio si cimenta nelle sue prime prove pittoriche che ci consegnano le letture del paesaggio urbano costellato di reperti archeologici, di scorci di campagne e lacerti di monumenti, “vedute” dove attiva il felice dialogo con la dimensione della luce naturale.
Se inizialmente le prospettive sono incerte e non precise, la sua ricerca si affina al rientro a Venezia dove inizia quell’ampia rassegna di “siti” che immortalano per sempre brani intensissimi non solo dell’ambiente veneziano – e dei suoi dintorni – ma anche della sua vita.
Tela dopo tela il suo profondo amore per Venezia si traduce nell’ampia gamma di suoi “ritratti”: calli e canali, campielli e piazze, ponti ed edifici ci riportano il suo clima e la sua visione che pare cristallizzarsi in una fotografia dipinta. Il suo lavoro, instancabile e fecondo, ci ha consegnato tra le immagini più superbe della città lagunare, concedendo proprio alla pittura di celebrarsi in un’esattezza narrativa che anticipa, sfruttando proprio con il principio della camera obscura, quella della fotografia: al buio su un foglio di carta retroilluminato traccia Canaletto gli infiniti dettagli che compongono il “quadro” da realizzare. A questa prima bozza fa seguito la pittura che ne contempla la massima precisione della visione.
La sua attività, che registra un notevole successo anche fuori dai confini della Repubblica, pare bloccare nell’eternità dell’arte la storia e la grandezza di una città la cui storia stava lentamente volgendo al termine: Canaletto, ultimo dei pittori di questo genere – Guardi ad esempio, più giovane di alcuni anni, ha già una risoluzione più moderna – pare fissare istanti che, immuni dal fluire del tempo, vinceranno le vicende storiche.
Nel suo lavoro vive sempre stretto nella duplice ambiguità di essere diventato un maestro assoluto del “genere”, ma di rimanervi anche, essendone sempre indissolubilmente legato, prigioniero. Un pittore di genere, famoso e amato, ma pur sempre vincolato a soggetti che erano considerati “minori” nella gerarchia delle arti.
Non importava molto a Canaletto questo aspetto e, istintivo, volubile, a tratti anche capriccioso, sapeva ben gestire il suo successo, tenendo salde le redini dei propri affari concedendo committenze, scegliendo collezioni, vendendo a prezzi “liberi” i suoi dipinti: se da una parte non amava, ad esempio, i francesi, dall’altra aveva ottimi rapporti con gli inglesi, forse più sensibili alle sue invenzioni. Sono del resto i rapporti con l’irlandese Owen McSwiny, impresario teatrale e mercante d’arte, a metterlo in contatto con quei numerosi anglossassoni che facevano tappa obbligata a Venezia durante il loro Grand Tour italiano e che vedevano nelle opere del Canaletto il miglior souvenir da riportare in patria.
È la profonda amicizia con Joseph Smith, il console inglese presso la Repubblica, a spalancargli le porte del grande collezionismo britannico, per il quale il diplomatico procacciava opere in Italia da appassionato collezionista d’arte quale era.
Compie un lungo soggiorno in Inghilterra quando, venuto meno il mercato “interno”, si trasferisce a Londra dove rimane, salvo un paio di interruzioni, tra il 1746 e il 1756. Qui la sua pittura muta registro, cambia il “clima” se a Venezia i paesaggi erano chiassosi e brulicanti di vita, il soggiorno inglese lo abitua a paesaggi calmi e silenziosi, portando alla sua veduta un apporto maggiormente meditativo.
Gli ultimi anni li trascorre nell’amata Venezia dove, ritornato al genere dei “capricci” che avevano segnato il suo esordio giovanile, continua a dipingere fino alla fine l’espressione peculiare della sua arte.
Canaletto resta un maestro indiscusso che, pur tra le alterne vicende critiche che si sono susseguite nei secoli, ha saputo far affermare e maturare il linguaggio particolarissimo di un genere allora considerato minore, l’ammirazione della sua arte, oggi, lo eleva a personalità eminente dell’arte del Settecento.
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