Cesare Pavese e quel mestiere troppo difficile

cesare pavese

di Francesca Radaelli

“…e Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina…”

Il 9 settembre 1908 nasce a S. Stefano Belbo (provincia di Cuneo) Cesare Pavese. È lui il giovane liceale di cui parla la canzone,  lo studente innamorato che si prende una pleurite dopo avere atteso nella fredda notte torinese la cantante ballerina di cui si è invaghito. Lei non si presenta all’appuntamento. A lui, per riprendersi, sono necessari tre mesi.

In questa immagine c’è davvero molto dello scrittore piemontese. Fragile e introverso, come lui stesso si rappresenta, tormentato dalla solitudine e dai ricordi, attirato da amori impossibili e dalla tentazione irrefrenabile del suicidio, a cui infine cederà nell’agosto del 1950.

Fernanda Pivano
Fernanda Pivano

Uno scrittore che fu un grande della letteratura italiana del Novecento, a cui si devono non solo romanzi che ormai si studiano persino a scuola come ‘La casa in collina’ e ‘La luna e i falò’,  ma anche traduzioni che hanno fatto la storia, da Melville a Joyce, fino ad arrivare agli autori americani del periodo, di cui contribuì a diffondere le opere anche in Italia, dai romanzi della beat generation alla mitica ‘Antologia di Spoon River’ di Edgar Lee Masters, che fu proprio Pavese a mettere nelle mani dell’allora sua allieva Fernanda Pivano, la quale ne ricavò una fortunatissima versione in lingua italiana.

Invece, per tornare alla ballerina, Cesare con le donne  di fortuna ne ebbe ben poca. Si vide respingere dalla stessa Pivano ben due proposte di matrimonio, e furono infelici tanto l’amore per la poetessa Bianca Garufi, la Leucò dei meravigliosi Dialoghi ‘ambientati’ tra i miti della Grecia classica, quanto quello per l’attrice americana Constance Dowling, a cui Cesare dedicò la struggente lirica “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.

Cesare Pavese e Constance Dowling
Cesare Pavese e Constance Dowling

L’immagine di un’esistenza fatta di solitudine e di un implacabile sentimento di inadeguatezza, rispetto non solo alle donne e all’amore ma anche alla vita stessa, è quanto emerge dal ‘Mestiere di vivere’, il diario che Pavese comincia a scrivere  negli anni del confino a Brancaleone Calabro. Ma è in tutti i suoi racconti che tornano e si ripetono, ossessivi, i simboli dell’infanzia, dal falò all’acqua ai riti contadini. Simboli che diventano miti analoghi a quelli, da lui amatissimi, del mondo classico. Miti dai quali è impossibile fuggire, ‘perchè ad ogni sussulto mitico ti ritornano in mente i tronchi e il fiume e la collina con dietro la luna e la strada e l’odore di prato e di campo, del tuo paese’.

Simboli e miti che permeano e delimitano un universo chiuso e quasi soffocante, fatto di ‘vizi assurdi’ in cui bisogna abituarsi a vivere, come ci si abitua a svolgere un mestiere, fino a che non diventa troppo difficile farlo. E come ci si abitua ad aspettare, al freddo, una ballerina che non arriverà mai.

 

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