di Francesca Radaelli
È possibile vivere in luoghi affollatissimi e sentirsi estremamente soli e indifferenti agli altri? È quanto spesso accade nelle città del mondo globalizzato, nelle nostre città.
Il paradosso della solitudine nella vita in città e delle forme dell’abitare la città sono stati – lo scorso 26 febbraio – i temi del secondo incontro del ciclo formativo dell’ultimo lunedì del mese, organizzato da Caritas Monza alla biblioteca del Carrobiolo e dedicato al pensiero di papa Francesco. L’incontro, introdotto da Fabrizio Annaro e Mino Spreafico, ha visto l’intervento di Johnny Dotti, pedagogista e presidente di E’-one abitare generativo.

Dio vive nella città?
La riflessione è partita dalle parole di papa Francesco, ripresa in apertura dal giornalista Fabrizio Annaro: da un lato la constatazione, da parte del papa, che nelle città ci siano molti non-cittadini che non godono di pieni diritti, dall’altro la convinzione che “Dio vive nella città”. Il Vangelo racconta che Gesù ha camminato per le città, facendo incontri e cambiando la vita di persone come il pubblicano Zaccheo, il cieco che riacquista la vista, e con essa anche la piena cittadinanza, la donna malata che viene guarita. “Il papa parla di incontri fecondi e profondi cambiamenti”, sottolinea Annaro, “esorta a ripartire dalla nostra visione di fede per poter immaginare e desiderare la città”.
Da qui la domanda, rivolta al pubblico: “Ma Dio vive nella città di Monza?”. E ancora: Chi fa vivere le nostre città? I progetti sociali dedicati ai cittadini danno forma a una città migliore o rimangono isolati e dispersi?
Accampamenti e relazioni
Il pedagogista Mino Spreafico aggiunge ulteriori stimoli alla riflessione, partendo da alcune poesie di padre David Maria Turoldo, che si chiede perché le persone non si salutino “in questi termitai che sono le nostre città”. Il saluto è una forma di relazione che gli abitanti della città sembrano negare a sé stessi. Spreafico, inoltre, si sofferma sulla differenza tra l’essere stanziali e il camminare: “Nelle nostre vite prevale lo stare fermi in un posto, ma la Bibbia dice che lo stanziarsi può essere sono un accampamento, e che se ci si accampa troppo si costruiscono solo idoli”, evidenzia il pedagogista. “Oggi le città rischiano di diventare tossiche, bisognerebbe vivere in questi ‘accampamenti’ costruendo relazioni, perché l’umanità dipende dalle relazioni, non dalle cose. Invece spesso oggi le città sono luoghi in cui si spegne il desiderio, prevale il culto del consumo”.
Cosa succede in città
Quando la palla passa al pubblico, le considerazioni che emergono da parte di chi prende la parola esprimono punti di vista spesso opposti sulla vita in città, a partire dalle proprie esperienze.
C’è chi sottolinea la maleducazione diffusa e i problemi di diffusione della droga e chi invece pone l’accento sulle opportunità offerte dall’abitare in città. In città si sviluppano iniziative di cooperazione, condivisione, volontariato: sta a noi la scelta di partecipare e condividere, sottolinea qualcuno. Qualcun altro evidenzia che dopotutto la città siamo noi, i cittadini, non tanto le strade e le costruzioni e che pertanto la forma delle città dipende dal nostro impegno quotidiano. E ancora: in luoghi in cui si vive sempre più vicini, la sfida diventa trasformare il vicino in prossimo, in senso cristiano.
Johnny Dotti: quale città per i cristiani?
Nell’intervento che chiude la serata Johnny Dotti, con uno stile diretto e a tratti provocatorio, amplia ulteriormente lo sguardo, ponendo al centro del suo discorso il rapporto tra le città, emblema della modernità e di ciò che egli definisce “capitalismo tecno-gnostico”, e la forma di vita a cui sono chiamati i cristiani.
“Oggi viviamo in un mondo binario, in cui a ogni domanda deve essere data subito una risposta. Invece il senso della città sta proprio nella capacità di custodire le domande dei suoi abitanti”, sottolinea. “Credo che la modernità abbia pregi e difetti. Abbiamo perso molto rispetto al passato, per esempio in termini di capacità artistiche e artigianali. Non credo che viviamo meglio rispetto a cinquecento anni fa, sicuramente viviamo di più, poiché oggi prevale il mito della massimizzazione di ogni cosa materiale, della lunghezza, della durata”.
Rispetto alla nostra possibilità di azione, Dotti si scaglia con forza contro uno dei mali del nostro tempo: il fatalismo. “Siamo convinti che l’innovazione possa arrivare solo dalla tecnologia e dal digitale, che il futuro sia già tracciato. Non immaginiamo più che ognuno di noi è venuto al mondo per mettere al mondo qualcosa. Ci concentriamo unicamente sul consumo solo di ciò che c’è. Ormai siamo abituati solo consumare, a portare le cose dentro di noi: compiamo questo movimento, che rende la città una somma di individui che consumano. Per il cristianesimo, però, l’uomo non è un individuo, innanzitutto perché fatto a immagine di Dio, che si articola in tre persone. Oggi invece ci sentiamo individui che producono e consumano, e la città è la grande macchina in cui avviene tutto questo”.
La città come luogo di separazione
Johnny Dotti critica il mito della società dei beni e dei servizi, di cui le città sono il “santuario”, e si sofferma sulla separazione a cui conduce la vita cittadina, esemplificata dai concetti di “alloggio” (“un tempo questa parola riguardava solo asini, cavalli e soldati, mentre noi l’abbiamo trasformata in un mercato: il mercato degli alloggi”) e “appartamento” (“vuol dire separazione, apartheid: dovremmo fare le marce contro gli appartamenti come le abbiamo fatte contro l’apartheid”): “Gesù venne ad abitare in mezzo a noi, dice il Vangelo. Non in un alloggio o in un appartamento”.
Se Dio abitasse davvero la città, i bambini potrebbero attraversarla a piedi, gli anziani non morirebbero soli, le persone riceverebbero sempre ospitalità, “perché Dio ama i bambini, gli anziani e gli ospiti”.
Nel mirino dell’invettiva di Johnny Dotti contro un certo tipo di modernità finisce anche il mito dell’efficienza e del buon funzionamento delle città: “Oggi l’umano sembra spostato solo sul funzionamento, prevale l’idea che abbia valore solo ciò che funziona. È un concetto è pericoloso: Auschwitz funzionava benissimo. Nelle città del passato si costruivano spazi che oggi sembrano poco funzionali, come portici e piazze totalmente inefficienti e inefficaci. Ma questi spazi avevano un fortissimo valore simbolico, questi luoghi “sprecati” erano i più importanti per i cittadini”.
Johnny Dotti sottolinea come la reazione alla pandemia abbia assecondato la tendenza alla “separazione” dentro le città: “E’ stata un’esperienza di rivelazione: potevamo fare scuola camminando per la città, e invece abbiamo ribadito l’essenza della scuola come un sistema tecnico, la scuola per noi è solo un edificio che si apre e si chiude”.
E conclude con una considerazione che suona un po’ amara: “Ho dedicato la vita a immaginare che le realtà che creavo con il volontariato diventassero servizi. Ora però non penso più che moltiplicare i servizi voglia dire moltiplicare la felicità, ma solo moltiplicare il consumo dei servizi”.
Un po’ di condivisione in città
Ma non tutto è perduto. Fedele al principio, da lui enunciato più volte, secondo cui tutti siamo chiamati a mettere al mondo qualcosa, e in risposta al quadro di decadenza della vita dell’uomo in città da lui stesso delineato, Johnny Dotti accenna nel finale alle modalità con cui si possono provare a creare nuovi modelli di vita associata. Sollecitato da Mino Spreafico, descrive infatti le caratteristiche di alcuni progetti ed esperienze a cui è riuscito a dare forma.
Per esempio una cooperativa di una sessantina di famiglie che hanno deciso di abitare vicine le une alle altre e condividere uno spazio comune di 1000 metri quadri, con lavanderia, dispensa e un gruppo di acquisto solidale: “ E’ un caso in cui gli abitanti sono venuti prima delle abitazioni, non lo chiamo “housing sociale”, ma il principio su cui si basava qualsiasi piccolo paese italiano: l’unione di persone che si trovano lungo la via e per vivere hanno bisogno di condividere”. Non nega la fatica di creare progetti come questo: “Le esperienze istituenti sono faticose: abbiamo fatto arrabbiare sia l’ente pubblico che il terzo settore, che si sono sentiti tagliati fuori”.
Un’altra esperienza interessante è quella che ha preso forma nel bresciano con la “riattivazione” di una vecchia cascina del Settecento: “Gli eredi si sono ricordati del significato di quello spazio in passato e hanno voluto rigenerarlo, costruendo una nuova comunità.”. Altra provocazione di Johnny Dotti: “Pensiamo a tutti quegli edifici che sono parte del patrimonio della Chiesa e dell’ente pubblico: possiamo provare ad inventarci nuove forme perché diventino beni comuni. Recuperando anche il senso del concetto di “convento”, basato sui principi di condivisione: ciò che ci tiene insieme è la nostra fragilità, non la nostra potenza”.
Una verità di cui, forse, a volte ci dimentichiamo, nel nostro modo di abitare la città.