di Alessandro Porto
Bene, ora ti spiego come vedere oltre. Sì, dico a te. Tranquillo è un corso gratuito. Non giudicarmi dalle apparenze: il fatto che io sia solo un foglio non significa che tu non possa imparare qualcosa da me. In fin dei conti tu sei solo un po’ di carne e ossa mobili, un ammasso di cellule, come me del resto.
Io, un tempo, ero un albero. Bei tempi quelli. Ma a volte dietro al dramma di divenire dei fogli si celano delle opportunità, quindi non guardo indietro con malinconia, bensì con la consapevolezza che il male non esiste, gli eventi sono negativi o positivi solo sulla base dell’interpretazione che noi diamo alle loro conseguenze. Se non mi fosse capitato di essere trapassato da lato a lato, dopo decenni di immobile quiete, da una motosega dentata, ora non sarei ciò che sono.
Ho passato decenni nella monotona esistenza da albero. Certo, era bella la compagnia, i miei frutti erano ormai già divenuti alberi, avevo un lavoro modesto, ma dignitoso (sorreggevo il fianco di una collina con le radici), un tronco robusto e un bel letto verdeggiante sopra i rami. Eppure mi sentivo sempre vuoto, o meglio, non mi sentivo vivo. Un giorno si posò su di me una tortora, particolarmente loquace, oserei dire petulante.
“Ciao albero. Sei vivo?”
“Certo che sono vivo, che domanda è?”
“Ne sei sicuro?”
“Non vedi come sono salde le mie radici e vivaci le mie foglie?”
“E allora?”
“E allora questa è la prova che io sono vivo.”
“Guarda che non essere morti non significa essere vivi.”
Volò via, senza dire altro. Sul momento non capii cosa volesse intendere, tanto ero impegnato a chiedermi perché mai una tortora dovesse venire da me, senza neppure presentarsi, ed infastidirmi con quelle domande pungenti, ma adesso comprendo la saggezza di quell’animale.
La mia occasione di iniziare a vivere arrivò proprio quando mi ritrovai di fronte alla morte, come succede a tutti. Riposavo tranquillo al sole, in quella limpida giornata d’aprile, quando comparve all’orizzonte uno spaventoso presagio. Si avvicinava lentamente a me un tristo figuro, ogni minuto di più, armato di una motosega luccicante, sorretta da delle possenti braccia, che parevano scolpite nella roccia di un monte e poi applicate su quell’omone. Rabbrividii, scuotendo le foglie, quando me lo trovai lì davanti, a mettere in funzione quella sua falce motorizzata e quando i suoi dentelli curvi iniziarono a grattare via la mia corteccia scoppiai in urla e lacrime e disperazione. Intorno a me gli altri alberi mi confortavano con le solite frasi di circostanza e cercando di aiutarmi, ma l’arnese continuava a squarciarmi senza sosta, come se non sentisse le mie suppliche.
Finché arrivò il giorno in cui caddi a terra, sfinito, senza più la forza di competere contro le avversità del fato. Mi vedevo perduto, senza possibilità di salvezza. Ed era solo l’inizio.
Venni caricato e legato su un camion e portato distante da tutto ciò che conoscevo, viaggiando al freddo, esposto alle intemperie. Arrivai infine in un edificio piuttosto mal ridotto e lì venne il peggio: fui privato della corteccia con la quale mi ero difeso dai parassiti per decenni, tagliato, sfibrato, triturato, esposto a strane procedure meccaniche e chimiche.
Mi ritrovai dopo quei tempi di massacro ad essere una sottile lamina bianca in cellulosa. Bianco. Vuoto.
Ero totalmente diverso, irriconoscibile in forma e colore. Senza vita forse. Sentivo che sarei morto; non ero più nulla e non possedevo più niente. Non avevo più terreno al quale ancorarmi.
Ma la Natura aveva ancora in serbo qualcosa per me. Divenni pagine di un libricino di poesie. Non male come inizio carriera: colleghi simpatici, nuove conoscenze, viaggi per le biblioteche. Purtroppo venni strappato dal mio libro da una donna esasperata e pensai che sì, questa volta sarei stato perduto per sempre. Divenni un foglio da disegno dopo il riciclaggio, che fu certo doloroso e travagliato ma, alla fine, mi diede la possibilità di vivere una vita ancora diversa. Venni ricoperto da splendidi colori e figure, ammirato da tutti coloro ai quali ero mostrato, dalla nuova proprietaria, una bambina riccioluta di circa sette anni.
Provai anche a volare quando divenni un aeroplanino di carta: solcai il cielo, facendo varie giravolte su me stesso, deviando ad ogni folata di vento per poi essere ripreso da qualche bambino prima di schiantarmi al suolo. Ero ancora vivo, dopo il mio sofferto cambio di forma . Avevo viaggiato, volato, ero stato abbandonato ma, lontano dalla mia quieta vita da albero, mi sentivo vivo.
Ed ora eccomi di nuovo qui, riciclato per l’ennesima volta e ancora pieno di cose da dire. Ora vivo, come sosteneva la tortora, la cui frase sarebbe però da modificare: “Talvolta per essere vivi bisogna prima morire.”
Dunque non giudicarmi in quanto foglio, ma giudica le mie sole parole. Le mie esperienze mi hanno reso ciò che sono ora, soprattutto quelle negative che mi hanno forgiato e rafforzato. Per questo ti consiglio di non fuggire il male, ma di affrontarlo, fiondartici dentro, senza cercare consolazioni da esso. Non ne hai bisogno, perché sai che il male non esiste, ogni esperienza è positiva o negativa in relazione al nostro modo di considerarla.
Il corso è finito: ora sai vedere oltre.