di Roberto Dominici
Se dovessi descrivere la diffusione del Covid 19 nel mondo, la potrei paragonare al Bolero di Maurice Ravel, la celebre sinfonia in cui poco a poco si aggiungono, in un crescendo continuo, nuovi strumenti musicali. Oppure un puzzle con nuovi pezzi che si aggiungono man mano che le conoscenze vengono acquisite.
I diversi Paesi sono stati colpiti dalla pandemia, uno per volta e sembra che manchino solo l’Africa sub-sahariana e l’Oceania. Quest’ultimo continente per altro, per quanto relativamente poco colpito, con un numero di casi ogni 100.000 abitanti inferiore a 1,5, vede un rapido aumento dei contagi nelle ultime settimane. Potremmo aggiungere che mano a mano che si inseriscono nella sinfonia nuovi strumenti, i primi si fanno meno rumorosi.
Oggi i Paesi che a febbraio, marzo e aprile erano nell’occhio del ciclone, rilevano un numero stabile di contagi, senza aumenti significativi. Ripercorrendo rapidamente le principali tappe del contagio si osserva con quale rapidità abbia viaggiato il virus.
Come ricorda un articolo di Nature, solo 7 mesi fa, il 31 dicembre 2019 le autorità cinesi segnalano all’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) la presenza di un focolaio, a Wuhan, provocato da un agente infettivo che allora aveva origini sconosciute. Sars-Cov-2 miete la prima vittima (per quanto ne sappiamo), l’11 gennaio, e il 23 viene indetto il lock down di Wuhan. Alla fine del mese il virus esce dai confini cinesi e raggiunge Thailandia, Australia, Malesia, Singapore e Stati Uniti.
In un paio di mesi la malattia fa il giro del mondo, con casi segnalati in Stati Uniti, Europa, Africa e Brasile. E il 2 aprile si supera la soglia di un milione di casi, con oltre 50.000 morti. Due settimane dopo un milione di contagi coinvolgono i soli Stati Uniti e il 21 maggio si supera la soglia dei 5 milioni di casi in tutto il mondo. Il 23 giugno, un mese dopo, il numero di casi globali è quasi raddoppiato (9,1 milioni). Il 13 luglio arriviamo a 12,8 milioni. A inizio marzo l’epidemia è sotto controllo in Cina e da allora la curva è stabile, con sole due morti dovute al Covid-19 dal 18 aprile. Il Paese è al 23esimo posto per numero di casi, con 58 contagi per milione di abitanti (dati di Worldometer).
L’Italia invece vive il suo periodo più buio dal 20 febbraio al 30 aprile. A marzo paga il tributo più grande alla pandemia: 250 morti per milione di abitanti. Da giugno la curva dei contagi si stabilizza, così come in molti altri Stati europei. A maggio e giugno però, nel momento in cui i Paesi che avevano messo in atto misure di contenimento nei mesi precedenti, iniziano a riaprire, negli Stati Uniti la malattia riemerge e ancora oggi i contagi dell’America del Nord rappresentano circa un quarto di tutti i nuovi casi segnalati ogni giorno in tutto il mondo (oltre 3 milioni di contagi in totale).
Se si considera anche l’America del Sud arriviamo ad oltre 6 milioni di casi. Previsioni affidabili si ottengono nei paesi in cui vengono effettuati oltre 2.000 test per milione di abitanti. Un articolo del sito Our World in Data, gestito dalla Oxford Martin School e dall’Università di Oxford, evidenzia un aspetto che potrebbe sembrare scontato, ma è molto importante nell’analisi della pandemia: se non viene effettuato un numero adeguato di tamponi, non si hanno dei dati affidabili.
Secondo le indicazioni dell’OMS, una quantità sufficiente di test corrisponde a 10-30 test per caso confermato. Buona parte dell’Europa, così come il Canada e l’Australia effettuano dai 50 test in su per trovare un caso (l’Italia tra i 100 e i 1.000), Le Americhe sono sotto i 30, mentre in alcuni Paesi, come in molti Stati africani, non ci sono abbastanza dati disponibili. Anche sulla base delle analisi dell’Institute de Santé Globale di Ginevra in Africa i dati non sono sufficienti, così come in Groenlandia, il Venezuela, Irak, Siria, Yemen, Afghanistan, Mongolia e Indonesia.
Negli altri Paesi, invece, in cui vengono effettuati oltre 2.000 test per milione di abitanti, le previsioni a otto giorni che si stabiliscono sono relativamente affidabili e le tendenze osservate significative. Si fa, in questo caso, riferimento alla carta di sorveglianza epidemiologica messa a punto dall’Istituto, che valuta la situazione nei diversi Stati in base al livello di allerta: basso in buona parte d’Europa, in Cina e in Canada, medio in Russia ed elevato nelle Americhe, in India, Arabia Saudita, Svezia e in sud Africa.
Al momento non ci sono prove solide di un indebolimento del virus. In Italia e non solo, nell’ultimo mese si è discusso molto (in modo anche piuttosto acceso a tratti), di un possibile indebolimento del virus rispetto ad alcuni mesi fa. È vero che il numero di contagi è stabile per il momento (picchi giornalieri a parte), ma questo non è necessariamente il risultato di un indebolimento del virus.
Richard Neher, che lavora al Biozentrum di Basilea, uno dei ricercatori del progetto Nextstrain, a febbraio aveva formulato, in un suo articolo, l’ipotesi di un effetto stagionale dell’andamento dei contagi. Continuo a pensare che sia probabile una variazione stagionale nelle regioni temperate, non tanto per il modo in cui il clima influisce sul virus, ma per il modo in cui modifica il nostro comportamento (in termini di tempo passato all’esterno rispetto agli ambienti interni).
Detto questo, l’effetto stagionale non è abbastanza forte da fermare la trasmissione in estate e non ci sono prove che dimostrino che il virus sia diventato meno aggressivo, almeno per ora. Come tutti i virus, anche SARS COV2 muta. E le variazioni genetiche si accumulano nel tempo. Nel caso del nuovo coronavirus si verifica una mutazione per 1.000 basi ogni anno. Un ritmo inferiore rispetto ai virus dell’influenza (con una media di ~ 2 mutazioni per 1.000 basi all’anno), o dell’HIV (circa 4 mutazioni per 1.000 basi all’anno). Nonostante queste mutazioni, per determinare se due genotipi sono funzionalmente distinti occorrono molti più dati sperimentali, clinici ed epidemiologici di quelli attualmente disponibili.
La stabilizzazione nel numero di contagi osservata è dovuta al fatto che le misure di contenimento hanno funzionato bene, ma anche alla capacità dei medici di gestire meglio e in modo più tempestivo i pazienti, grazie all’esperienza degli ultimi mesi. Impossibile prevedere il futuro, ma dobbiamo prepararci ad una seconda ondata. Le previsioni che vadano oltre gli otto giorni sono inverosimili e non scientifiche. A nessuno verrebbe in mente di prevedere che tempo farà il prossimo ottobre a Parigi o a Londra. Le proiezioni su tempi lunghi sono inaffidabili nell’ambito dell’epidemiologia così come nella meteorologia.
Piuttosto, bisogna approfittare di questa tregua estiva per prepararsi ad un eventuale secondo attacco. Anche perché, i risultati degli studi sierologici condotti finora in Europa, suggeriscono che l’immunità a Sars-Cov-2 sia ancora bassa nella popolazione (inferiore al 10%), quindi le persone suscettibili sembrano essere ancora molte. Pertanto non sappiamo se si verificherà una seconda ondata ne quando, ma possiamo, e aggiungo dobbiamo, prepararci e fare tutto il necessario per evitare il più a lungo possibile il rischio di un’epidemia più dura di quella che abbiamo sperimentato quest’inverno in Europa (soprattutto in Italia, Spagna e Francia).
I Paesi dovranno chiedersi se sono in grado di procedere ad un opera di identificazione dei casi e di tracciamento dei contatti adeguato ed efficace (le famose tre T: testing, tracing and treating), il che vuol dire tracciare 10-15 contatti a rischio per ogni nuovo caso. Riusciremo a farlo se i casi al giorno arrivano a 2.000 o 3.000?
In caso contrario bisognerà attuare di nuovo delle procedure di confinamento, efficaci da un punto di vista sanitario, ma che avranno un costo sociale, politico ed economico esorbitante. Ci stiamo preparando a questa prospettiva? Stiamo approfittando della tregua estiva ?