Il diabete di tipo 2 (non insulino-dipendendente) favorirebbe l’insorgenza del morbo di Alzheimer. E’ questa l’ipotesi riportata in uno studio condotto da un gruppo di ricerca guidato da Giulio Pasinetti (che ho invitato per un seminario qualche anno fa al CNR di Milano), che lavora presso il dipartimento del Mount Sinai di New York. I risultati dello studio sono stati pubblicati, lo scorso febbraio, sulla importante rivista scientifica “Diabetes”.
Lo studio prospetta per la prima volta, una serie di meccanismi attraverso i quali il diabete di tipo 2 può provocare alcuni cambiamenti nel cervello e influenzare in maniera significativa lo scatenarsi della malattia di Alzheimer. Il diabete mellito di tipo 2 è una condizione associata al metabolismo del glucosio ed è di gran lunga la forma di diabete più frequente (interessa il 90% dei casi), tipico dell’età matura.
Due i difetti che lo possono provocare. Il primo è legato ad un’insufficiente produzione di insulina, incapace di soddisfare le necessità dell’organismo. Il secondo, invece, è legato al fatto che l’insulina, pur prodotta in quantità sufficiente, non agisce come dovrebbe. Il risultato, in un caso o nell’altro, è il conseguente incremento dei livelli di glucosio (iperglicemia) nel sangue. Questo tipo di diabete è chiamato “non insulino-dipendente” perché l’iniezione di insulina esogena, a differenza di quanto avviene nel diabete di tipo 1, non è di vitale importanza.
Il diabete di tipo 2 spesso risponde bene alle modifiche della dieta, insieme all’uso di farmaci antidiabetici. Individuando dei cambiamenti in alcuni geni del cervello umano in soggetti malati di diabete, si è scoperto che il diabete è in grado di influire sul deterioramento cognitivo di questi pazienti, attraverso una serie di modificazioni epigenetiche del DNA, modificazioni chimiche che influenzano l’attività del DNA cioè l’espressione dei geni, senza però modificarne la struttura.
Basandosi su questa scoperta, è stato poi ipotizzato che se l’evidenza fosse stata corretta, analoghe condizioni si sarebbero potute replicare in laboratorio, per esempio in topi diabetici e geneticamente predisposti a sviluppare la malattia di Alzheimer; l’ipotesi di partenza si è dimostrata corretta, e per la prima volta, si è dunque potuto dimostrare che il diabete di tipo 2, attraverso cambiamenti epigenetici del DNA nel cervello, può provocare l’insorgenza e la progressione della malattia di Alzheimer.
La relazione tra diabete di tipo 2 e malattia di Alzheimer è ancora poco chiara. Non tutti i soggetti con diabete di tipo 2 sono affetti da morbo di Alzheimer e, allo stesso modo, non tutti i malati di Alzheimer sono diabetici. Tuttavia, negli ultimi anni, l’evidenza epidemiologica indica che rispetto a soggetti anziani sani, la popolazione della stessa età alle prese con il diabete di tipo 2 ha più probabilità di sviluppare un deterioramento cognitivo e una maggiore sensibilità alla insorgenza della malattia di Alzheimer.
Emerge una visione innovativa del potenziale meccanismo che potrebbe spiegare la relazione tra diabete di tipo 2 e l’insorgenza di malattia di Alzheimer. Questa scoperta presenta molteplici implicazioni sociali: attualmente ci sono più di 5 milioni di americani colpiti dall’Alzheimer, mentre in Italia sono quasi 3 milioni (il 4,9% della popolazione) e l’incidenza della malattia ipotizza una crescita esponenziale nei prossimi trent’anni, complice il continuo invecchiamento della popolazione.
Ma come tradurre gli esiti della ricerca in un possibile trattamento nell’uomo? Si cerca ora di capire come queste alterazioni del metabolismo del glucosio siano in grado di modificare la funzione di segmenti specifici di DNA e, da qui, iniziare a disegnare nuove terapie sperimentali per prevenire o comunque bloccare le modificazioni funzionali del DNA in pazienti affetti da malattia di Alzheimer. Abbiamo bisogno ancora di fare molta ricerca, ma siamo sulla strada giusta.
Roberto Dominici