di Claudia Terragni
Sabato 2 Luglio 2016: In camera ho un armadio bianco. È molto grande, copre la superficie di quasi tutta la parete sinistra della stanza. Cinque ante, due ripiani, quattro cassetti e un sacco di mensole. La prima volta che l’ho visto è stata ormai quasi un anno fa, quando vagavo di casa in casa nell’afoso agosto patavino, alla ricerca di un posto dove stare per iniziare la mia avventura da universitaria fuori sede.
Sinceramente non l’avevo neanche notato, questo armadio, dopo il quarto appartamento ispezionato nel giro di una sola mattina. E la prima volta che l’ho dovuto riempire di vestiti non è stato uno scherzo: “Allora Marti, io prendo i due cassetti sotto e tu i due sopra?” “Sì e tu il ripiano sopra e io quello sotto” “Perfetto! Cavolo aspetta, ma abbiamo solo tre grucce?”.
Piazzi i calzini in fondo al cassetto. Dopo capisci che non ha senso che stiano dietro le coperte di cambio: quelle non le usi mica tutti i giorni. Riponi le camicie sulla mensola in alto in alto, ma poi ti rendi conto che neanche le vedi e ogni mattina è una scommessa sapere qual è la camicia che sta in cima alla pila.
Mettere la cosa giusta al giusto posto. E aprire al momento giusto il giusto cassetto.
A volte mi sembra che la vita funzioni come un armadio. Hai un certo numero di spazi e sta a te decidere come disporre le cose. Se mettere lo studio nell’anta grande o in quella piccola. Se impilare la famiglia sopra gli amici o viceversa. Poi compri un nuovo cappello e decidi di metterlo a lato della sciarpa, così come inizi un nuovo corso di Zumba e lo metti di fianco al portar fuori il cane. Magari alcune magliette ti hanno stancato, proprio come la pallavolo, e decidi di cacciarle nell’angolo per far posto a canottiere nuove. Per non parlare dei catastrofici cambi di stagione: preso da foga maniacale prendi e sbatti tutto il guardaroba invernale in puzzolenti scatoloni di plastica finchè non passa questo caldo infernale. Come quando non passi un esame o litighi col tuo ragazzo e hai una gran voglia di buttare tutta la tua vita in un sacchetto di plastica senza neanche metterci un foglietto profumato dell’Ikea.
Non è facile gestire un armadio. Io ad esempio sto imparando solo ora a chiudere le ante. Il mio ragazzo mi rimprovera sempre ogni volta che vede che le lascio socchiuse. Anche nella vita trovo difficile aprire un cassetto alla volta: aprire, chiudere, aprirne un altro, chiuderlo. Mi lascio prendere dalla foga e voglio fare tutto, voglio scegliere sia i pantaloni che le mutande in contemporanea e va a finire che mi vesto un po’ a caso. Però a volte è difficile affrontare le cose con ordine, dare priorità ad un impegno e solo dopo prestare attenzione allo scaffale!
Adesso voglio aprire lo sportello grande anche se è ancora tempo di concentrarsi sul cassetto degli esami. Ma non resisto più! C’è qualcosa lì dentro che mi sta chiamando. Mi chiama da tutta la vita forse. Anni fa era solo un sussurro, il brusio dei folletti che vivono tra la polvere e i guanti. Poi è diventata sempre più intensa, profonda, e da anni riecheggia incessante di visceri del mobile. Solo pochi mesi fa ho deciso di darle retta e mi sono convinta a partire per un Cantiere della Solidarietà di Caritas Ambrosiana, ad agosto, in Libano.
Alcuni la chiamano “vocazione” per il volontariato, un po’ come quella che ti spinge ad entrare in seminario. Ecco, direi che una voce in un mobile non è esattamente comparabile alla Voce di Dio. Però in effetti io sento qualcosa che “vocat”. Però è qualcosa di più simile a una di quelle dichiarazioni sibilline mistico-esistenziali che rivela il cowboy dai baffi bianchi nei film americani. Non sai bene come interpretarle, ti lasciano lì un po’stranito a guardare il vecchio che galoppa verso il deserto. Razionalmente non le sai interpretare. Ma una parte di te le capisce. Non viviamo soltanto pensando, nella vita non
facciamo solo scelte sensate. Perché dopo mesi di studio non preferisco lucertolare sotto il sole? Non lo so! Ma lo provo, sulla mia pelle. Non so spiegare logicamente perché lo faccio. Posso dire perché non lo faccio però: non lo faccio perché penso di poter salvare il mondo. Non lo faccio tanto per fare qualcosa di alternativo. Non lo faccio per amore del rischio, né per far vedere come sono coraggiosa ad andare nel Paese vicino di casa della guerra Siriana, né per farmi ammirare ben che meno compatire. Non lo faccio neanche perché spero di cambiare la vita a qualcuno.
Però lo faccio. E lo facciamo in tanti.
Forse è questo che conta.
Magari dentro quest’armadio non troveremo Narnia, ma il cowboy mi ha detto che non ci deluderà.
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