di Claudia Terragni
The Help è un film del 2009 diretto da Tate Taylor. Ha avuto uno strepitoso successo e solo negli Stati Uniti ha incassato più di 160 milioni di dollari. Anche in Italia è diventato molto popolare anche tra i ragazzi e gli insegnanti. In pochi però sanno che il film è tratto dall’omonimo romanzo di Kathryn Stockett, best seller americano purtroppo trascurato nel nostro Paese. Parla di un’aspirante scrittrice del Mississipi degli anni 60 che decide di raccontare le difficili storie delle domestiche di colore che la circondano, vite dominate da razzismo, umiliazioni e continue ingiustizie.
Prima del mio viaggio di volontariato in Libano non sapevo che The Help fosse prima un libro che un film. L’ho scoperto a Beirut vedendo una ragazza leggerlo. Per lei non è un libro come un altro: le storie descritte non sono molto diverse dalla sua. Anzi per certi aspetti la sua è anche peggiore.
Mi trovo in uno degli shelter di Caritas Libano, un centro di accoglienza per donne lavoratrici migranti. Sono lì per un viaggio di volontariato di Caritas, insieme a un’altra decina di ragazzi. Il centro è essenzialmente costituito dal quinto piano di un palazzone di Beirut, dove al momento vivono un cinquantina di ragazze sui vent’anni. Sono principalmente africane (Etiopia, Burkina Faso, Kenya, Camerun, Madagascar) e asiatiche (Bangladesh, Filippine, Sri Lanka). Sono in Libano perché qui funziona ancora come nel Mississipi degli anni 60. Le famiglie libanesi che se lo possono permettere hanno una domestica che vive con loro e si occupa della pulizia della casa e della gestione dei figli. Secondo le stime, nel Paese sono presenti più di 200.000 lavoratrici immigrate di cui il 70% impiegate come domestiche. Per le strade nelle vetrine dei negozi sono ancora esposte le divise bianche e grigie da donna di servizio.
Nonostante la giovane età, la maggior parte delle migrant workers ha marito e figli che le aspettano. Partono con l’intenzione di restare in Libano per qualche anno e guadagnare i soldi necessari per portare il pane a casa. Portare letteralmente il pane a casa, perché vengono tutte da aree geografiche dove la soglia di povertà è altissima. Lavorare all’estero permette di procurarsi il denaro per sfamare i propri figli o dare una svolta alla propria vita. Una soluzione dignitosa, il primo passo per cambiare strada. Spesso però l’orizzonte si rivela essere decisamente meno roseo del previsto.
Le migrant domestic workers non sono tutelate da nessuna legislazione nazionale. Si affidano ad agenzie (assolutamente legali, perché non esiste nessuna legge contraria) che fanno firmare loro un contratto, tendenzialmente in una lingua sconosciuta, e le mettono in contatto la futura famiglia ospitante. Il padre o la madre della famiglia diventa di fatto il loro proprietario: vige il sistema della sponsorship (kafala), per cui un lavoratore straniero può soggiornare legalmente sul territorio nazionale solo se sponsorizzato dal proprio datore di lavoro libanese. Questo vincola totalmente le lavoratrici alla famiglia. Senza sponsor sono illegali. Sono di loro possesso.
Sta alla famiglia decidere di trattarle come persone o come elettrodomestici.
Quando si sceglie la seconda opzione nessun diritto è tutelato. Sono private di ogni libertà di movimento e comunicazione perchè la prassi prevede che la domestica consegni alla famiglia il passaporto insieme agli altri documenti e al cellulare. Vengono segregate tra le mura domestiche come si chiude l’aspirapolvere nell’armadio. Il pagamento mensile dei salari non viene rispettato: mica si paga una lavatrice! Vengono negate ore e giorni di riposo, senza considerare i bisogni alimentari primari così come non si sfama una lavastoviglie. Vengono abusate psicologicamente e fisicamente perché se il padrone è arrabbiato può urlare dietro alla domestica così come alla tv che non si accende, se è irritato può rompere un piatto così come il braccio della donna di servizio. Nei casi peggiori non mancano gli abusi sessuali. Tanto tra un giocattolo erotico e la domestica cambia solo che la seconda non la devi neanche pagare .
Alle ragazze non rimane che scappare, in un luogo straniero, di cui non conoscono lingua, usi e costumi. Scappano e non devono essere viste dalla polizia perché senza documenti la loro presenza è proibita. Infatti secondo le stime del CLMC (Caritas Lebanon Migrants Center), il 15 – 20% del totale della popolazione detenuta nelle carceri libanesi è costituito da lavoratori migranti illegali. Scappi, ma dove vai? Non puoi andare da nessuna parte senza passaporto.
L’unica soluzione sono i centri Caritas. Nel 2005 il CLMC ha firmato un Memorandum of Understanding con l’ufficio immigrazione della General Security libanese che permette di accogliere in strutture protette le vittime di traffico. In queste strutture le ragazze ricevono assistenza legale e psico-sociale. Vengono seguite da psicologi e affiancate da avvocati per riavere i documenti e i salari non pagati e riuscire a tornare a casa. Funziona.
Il problema è che il processo può durare mesi o anni, senza che le ospiti possano uscire dallo shelter per motivi di sicurezza. L’unica possibilità è aspettare. Quindi aspettano, rinchiuse lì.
E aspettano.
Al quinto piano di un palazzo con le sbarre alle finestre e altre cinquanta donne come te che aspettano, rinchiuse lì.
E aspettano.
Cosa aspettano poi? Un biglietto aereo per tornare dalla famiglia che non vedono né sentono da anni. Per tornare senza tutti quei soldi che speravano, probabilmente. Invece possono riportare in dono umiliazione e vergogna. Un ottimo souvenir. E poi non sanno cosa trovano a casa. Chissà quanto è cresciuto tuo figlio che hai lasciato che aveva due anni e ora ne ha venti. Chissà quanto è bello tuo marito che sta costruendo la vostra casa. Chissà cosa succede ora nella tua terra, se la tua mamma sta bene, se tua sorella si è sposata. Se si ricordano di te. Se il tuo ritorno lo vogliono ancora. Se almeno lo sperano. Se tu potrai dimenticare quello che hai subito. Ti alzi e speri sia quel giorno, ma ancora non lo è se ti addormenti con lo stesso desiderio e la stessa logorante nostalgia. La stessa delusione e la stessa tremenda interminabile pazienza.
Ho conosciuto una ragazza del Kenya che correva. In poche parlano inglese, la maggior parte capisce solo un po’ di arabo o francese.
Lei parla inglese e mi racconta che in Kenya correva a livello agonistico. Era brava, vinceva le gare. Ora non corre, passa le sue giornate in uno shelter seduta su un divano scassato. Non sorride. Non ti guarda negli occhi quasi mai. Ma quando capita ti sembra di caderci dentro, di affogare in una profondità nera di rassegnazione e rabbia. Il mondo l’ha tradita, la vita l’ha delusa. È una delle poche che non prega. Chissà cosa pensa lei di Dio?
Un giorno ho passato del tempo con un’africana di 23 anni che ne dimostrava almeno il doppio. Era triste e piangeva. Mi ha parlato per una buona mezz’ora in arabo senza che io capissi una parola. Ma le bastavo io. Io che non potevo darle neanche una cosa così banale come l’ascolto. Ha pianto tanto e io non potevo fare nulla. Poche volete mi sono sentita così impotente. Avrei voluto poterle offrire qualcosa di più di un lungo abbraccio, qualcosa di meglio delle carezze di una sconosciuta. Le accarezzavo la mano e pensavo che assomigliava tantissimo a quella di mia mamma. Ma lei non era mia mamma e io non ero sua figlia. Sua figlia era in Etiopia. Si è dovuta accontentare di me.
Però a volte ti senti utile. Dieci italiani sono un po’ più interessanti della solita telenovela in una lingua incomprensibile o del solito libro. Sicuramente meglio che guardare nel vuoto. Non saremo stati la soluzione dei loro problemi, ma non hanno pensato alla loro vita almeno per un po’. Ballare zumba, cantare travolgenti canzoni africane, costruire braccialetti, dipingere con le mani sporcandosi tutte può strappare una risata a quelle ventenni che di sorridere non hanno già più la forza.
La direttrice dello shelter dice che noi siamo la speranza del mondo.
In realtà detto da lei suona un po’ ridicolo, dato il suo incredibile passato: dopo essere stata un migrant worker in prima persona ha dedicato la sua vita ad assistere le altre ragazze come lei, lontana dal suo Sri Lanka, senza lasciare il suo lavoro neanche durante la guerra o l’intervento di amputazione della gamba destra. Mi sento egoista e sleale ad accettare un complimento del genere da una persona come lei, da lei che è realmente la speranza del mondo. Eppure con la stessa disarmante modestia con cui ricorda la sua vita, ci considera speranza. Chi sono io per essere la sua speranza? Però lei conosce indubbiamente meglio di noi queste ragazze, quindi forse è vero che abbiamo lasciato qualcosa. Davvero si porteranno a casa anche qualche bel ricordo grazie a noi. Metteranno in valigia qualcosa di più piacevole di quattro magliette stinte e un paio di infradito scassate.
Perché prima o poi succede, la fanno davvero la valigia. Magari dopo anni di attesa, ma tornano a casa finalmente. Un giorno una di loro ha ricevuto la notizia del suo rientro in Madagascar. Dopo pianti e abbracci si siede sul suo letto. Le sue amiche sono tutte intorno a lei, in un misto di gioia, sollievo e invidia. Iniziano a truccarla. È meraviglioso questo sciamare di donne che le ronza attorno: chi le fa le unghie, chi le sistema i capelli in mille treccine ordinate, chi le copre il viso di un fondotinta troppo chiaro per la sua carnagione.
Qualcosa di bello lo portano a casa di sicuro, esattamente come noi.
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