di Francesca Radaelli
Una donna dal volto gentile, piccola, minuta e all’apparenza fragilissima, ma dallo sguardo fermo e deciso. Una donna di 70 anni che ha trascorso gran parte della vita agli arresti e che oggi, a 67 anni dall’approvazione della Dichiarazione universale dei diritti umani, incarna la speranza che quei diritti possano davvero farsi largo nel mondo, e senza violenza.
Il volto di Aung San Suu Kyi, accanto a quello sorridente di Giuseppe Malpeli, compianto presidente dell’associazione di Amicizia Italia – Birmania mancato lo scorso 29 ottobre, risplende sul manifesto della serata che si è svolta lo scorso giovedì 10 dicembre, all’Urban Center del Binario 7 di Monza.
Organizzato dall’UPF Monza in occasione dell’anniversario dell’entrata in vigore del documento che mette nero su bianco i diritti dell’umanità, l’appuntamento aveva per titolo una domanda, ‘Quali diritti umani?’
L’inizio di una risposta, forse, può essere trovato nel volto di Aung San. In uno scenario mondiale agitato da venti di guerra e descritto a tinte particolarmente fosche dai media – spesso in maniera strumentale e irresponsabile – proprio questa piccola donna birmana rappresenta l’accendersi di una luce. Per il suo Paese, innanzitutto, ma anche per tutti noi, a ben guardare.
Il perché lo ha raccontato con parole bellissime, emozionate ed emozionanti, Albertina Soliani, senatrice per tre legislature, già fondatrice e presidente del gruppo interparlamentare Amici della Birmania. Pochi giorni prima di quel terribile venerdì 13 novembre, giorno dei tremendi attentati di Parigi che hanno colpito al cuore l’Europa, a migliaia di chilometri di distanza è accaduto qualcosa che forse potrebbe rivestire una portata storica maggiore. Forse è su quell’8 novembre 2015 che dovrebbero accendersi le luci dei media. Perché quella domenica di poco più di un mese fa ha visto in Birmania 35 milioni di persone uscire dalle loro case per tornare a votare, a 55 anni dalle ultime elezioni regolari. Un popolo che dopo una lunga dittatura ha scelto la democrazia: il partito di Suu Kyi, ossia la Lega nazionale per la democrazia (Lnd) ha ottenuto la maggioranza e ora all’orizzonte si profila la transizione verso un governo democratico.
“Le difficoltà non mancano, la Birmania è attraversata da conflitti etnici molto complessi, ci sono ancora molti ostacoli da superare”, ha spiegato Albertina Soliani. “Ma nel corso della sua vita Aung San Suu Kyi si è trovata di fronte a problemi di non certo minore portata. E ha sempre avuto la forza per affrontarli, sempre rimanendo fedele a quella idea di non violenza, che alla lunga si è rivelata arma vincente nella lotta pacifica per la realizzazione dei diritti umani. È questa, ne sono convinta e la storia di Aung San è lì a dimostrarlo, la strategia più efficace per costruire realmente la pace e la libertà. Non una rivoluzione delle armi ma una rivoluzione dello spirito, che richiede pazienza e dedizione”. Una rivoluzione di cui una piccola donna rappresenta l’incarnazione ma che ha visto protagonista un intero popolo.
L’intervento della senatrice Soliani ha costituito il cuore della serata, ma per tutto il tempo, in fondo, l’effige di Aung San ha rappresentato una guida, un punto di riferimento, una direzione in cui guardare, parlando di diritti umani.
Il suo spirito di sacrificio è simbolo di quei doveri senza cui non ci sarebbero diritti, sanciti dall’articolo 29 della Dichiarazione ricordato in apertura dall’assessore Francesca Dall’Aquila.
La sua vittoria alle elezioni è simbolo di quella forza del diritto che garantisce la pace, a dispetto del diritto della forza, a cui si richiamano le parole del filosofo Norberto Bobbio, citato da Ettore Fiorina nel suo discorso.
La sua fiducia nella possibilità di cambiare le persone e quindi la storia è il simbolo di quel riconoscimento dell’uomo come essere spirituale individuato da Carlo Chierico come punto fondamentale perché i diritti umani possano essere affermati. E anche di quel lavoro continuo per il dialogo rivendicato dalla giovane Wesam El Husseiny che viene costruito un mattone dopo l’altro con fatica e pazienza, che eventi come quelli di Parigi rischiano di far crollare tutto insieme all’improvviso e che nonostante tutto deve essere portato avanti, per il futuro e le generazioni che verranno.
La vicenda di Aung San Suu Kiy è il simbolo della necessità di diffondere e divulgare i trenta articoli della Dichiarazione del 1948 enunciata e sostenuta da Fiorella Cerchiara, presidente dell’Associazione per i Diritti Umani e la Tolleranza Onlus impegnata in questo senso in iniziative e progetti educativi, anche e soprattutto nelle scuole.
Ma la figura della leader birmana richiama tante altre figure di uomini e donne impegnate tutti i giorni e su più livelli a lavorare per la costruzione di qualcosa, come Nawal, la protagonista del libro-biografia scritto dal giornalista Daniele Biella, che ha voluto raccontare la storia di questa ‘angelo dei profughi’ per contribuire ad accendere un’altra ‘luce di speranza nel mondo’.
Un impegno a cui si è richiamato, in conclusione anche Fabrizio Annaro, direttore de Il Dialogo di Monza, che ha sottolineato come l’esempio di Aung San dimostri che il cambiamento è possibile, e soprattutto che il bene va raccontato, anche e soprattutto dai media, perché il mondo e la storia possono volgersi al bene.
Aung San Suu Kyi ci indica, insomma, una direzione. Perché quei 30 diritti definiti ‘umani’ al termine dell’ultima grande guerra mondiale abbiano davvero una chance di diventare realtà, tutto in fondo dipende proprio dall’uomo. Cioè da ciascuno di noi. Tutti, in fondo, possiamo accendere la speranza. E oggi più che mai siamo chiamati a farlo.
Francesca Radaelli
Francesca sempre brava e precisissima.
Davvero una serata importante e toccante, io ero presente, complimenti agli organizzatori e ai relatori. Ben fatto e molto preciso l’articolo della giornalista. M. Angela