di Daniela Zanuso
7 ottobre 2006. Quel giorno Anna Politkovskaja è stata ritrovata nell’ascensore della sua casa moscovita uccisa da quattro colpi di arma da fuoco. Una morte annunciata.
Alcuni giorni dopo avrebbe pubblicato sul giornale “Novaja Gazeta” i risultati di una sconvolgente inchiesta sulle torture consumate in Cecenia dai russi, ultimo reportage di una carriera giornalistica sempre all’insegna del coraggio, della verità, della lotta per i diritti e la dignità degli individui, per la libertà e per la democrazia.
Nasce a New York il 30 agosto 1958, figlia di diplomatici sovietici di nazionalità ucraina. La sua carriera di giornalista inizia presso il giornale moscovita Izvestija. Nel 1999 comincia a seguire per la Novaja Gazeta, quotidiano russo di ispirazione liberale, il conflitto in Cecenia. E’ l’inizio di un lungo e faticoso lavoro di indagine dove denuncerà sequestri, torture, sparizioni, stupri, esecuzioni sommarie. Ramzan Kadyrov, allora primo ministro ceceno che godeva dell’appoggio di Putin, non perderà occasione per dichiarare di averne abbastanza di lei; arriverà ad affermare che Anna Politkovskaja “era una donna spacciata”.
Nel 2001, Politkovskaja è costretta a fuggire a Vienna in seguito a ripetute minacce ricevute via e-mail da Sergei Lapin, un ufficiale dell’OMON (la polizia che dipende direttamente dal ministero degli Interni con emanazioni nelle varie repubbliche russe). Anna l’aveva accusato di crimini contro la popolazione civile in Cecenia.
E’ stata una giornalista scomoda, che si è opposta con forza al regime instaurato da Vladimir Putin, che ha lottato perché fossero rispettati i diritti umani. Laica e disincantata, nelle sue inchieste non temeva di schierarsi, scegliendo sempre di stare dalla parte dei più deboli e indifesi.
Nel 2001 vinse il Global award di Amnesty International per il giornalismo in difesa dei diritti umani e, due anni dopo, il premio dell’Ocse per il giornalismo e la democrazia. Mise anche da parte il suo ruolo di giornalista per quello di negoziatrice durante l’assedio del teatro Dubrovka di Mosca nel 2003.
Nel dicembre 2005, durante una conferenza a Vienna di Reporter Senza Frontiere sul tema della libertà di stampa denuncia: “Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola ad essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare.”
Mettere a tacere il dissenso è la tecnica di tutti i totalitarismi e Anna è stata una delle tante vittime di questo sistema. Il suo delitto è rimasto impunito fino al terzo processo del 2014, quando il Tribunale di Mosca ha inflitto due ergastoli: uno al presunto killer Rustam Makhmudov e l’altro a suo zio organizzatore dell’omicidio Lom-Ali Gaitukayev. Altre tre condanne da 12 a 20 anni sono state inflitte agli altri tre complici tra cui Serghiei Khadzhikurbanov ex-dirigente della polizia di Mosca, tutti accusati a vario titolo di aver organizzato ed eseguito il delitto.
La vogliamo ricordare con le parole che il filosofo francese André Glucksmann, scrisse per le pagine del Corriere della Sera il 3 dicembre 2006: « Anna Politkovskaja era una creatura rara, con un coraggio fisico e morale da lasciare a bocca aperta. E, come tutti gli eroi, aveva una modestia e un umorismo sorprendenti. […] Anna Politkovskaja è morta inutilmente? Lei ha suonato le campane a martello, affinché il mondo democratico sapesse e reagisse. […] Morta per niente? Morta per noi. Noi occidentali, che non l’abbiamo saputa leggere, né proteggere. Questo niente, per cui lei ha dato la vita, siamo noi. Sensibile al dolore degli oppressi, incorruttibile, glaciale di fronte alle nostre compromissioni, Anna è stata, ed è ancora, un modello di riferimento. Ben oltre i riconoscimenti, i quattrini, la carriera: la sua era sete di verità, e fuoco indomabile. »