di Virginia Villa
Hannah Arendt, nata nel 1906 a Linder (Hannover), è stata una filosofa tedesca. La famiglia Arendt apparteneva alla borghesia ebraica, ma aveva preso le distanze dal movimento e dalle idee sioniste. Pur non avendo ricevuto un’educazione religiosa tradizionale, Hannah non negò la sua identità ebraica e professò la sua fede in Dio, anche se in modo personale, lontano dalle convenzioni.
E’ importante ricordare questi elementi biografici perché aiutano a comprendere meglio la strada percorsa dalla Arendt che si dedicò ampiamente a comprendere il destino del popolo ebraico, identificandosi con la sua storia.
Ebbe la fortuna di essere allieva di Martin Heidegger e di Edmund Husser e nel 1929 si laureò in filosofia sotto la guida di Karl Jaspers con una dissertazione su “Il concetto di amore in Agostino”. Dal 1929 fino all’avvento del nazionalsocialismo soggiornò a Berlino dove ottenne una borsa di studio per una ricerca sul romanticismo dedicata alla figura di Rahel Varnhagen e sposa Günther Stern, un filosofo conosciuto anni prima a Marburg.
Il 1933 segna la sua fuga dalla Germania in quanto il nazionalsocialismo portò l’inizio delle persecuzioni nei confronti delle comunità ebraiche. Dopo un lungo peregrinare, arrivò a Parigi, ma gli sviluppi storici del secondo conflitto mondiale costrinsero Hannah Arendt ad allontanarsi anche dal suolo francese.
Venne internata nel campo di Gurs dal governo Vichy in quanto straniera sospetta. Una volta liberata partì alla volta di New York, che raggiunse insieme al secondo marito, Heinrich Blücher, nel maggio 1941. Qui iniziò la sua nuova vita: ottenne la cittadinanza statunitense e con essa i diritti politici che le erano stati sottratti. Questo nuovo status le consentì di iniziare una carriera accademica vera e propria, insegnando presso le Università di Berkeley, Columbia, Princeton.
La teoria arendtiana dell’agire politico
Una delle teorie più importanti elaborate da Hannah Arendt, alla base delle sue opere più famose, riguarda l’agire politico e, in particolar modo, la distinzione fondamentale tra chi una persona è e cosa una persona fa. La Arendt sottolinea che il livello del “che cosa” uno ha detto, fatto, prodotto non ci parla compiutamente dell’essenza della persona, per esempio della sua grandezza. Il “chi” uno è stato riguarda, invece, qualcosa di diverso da ciò che di sublime o di eccellente può esserci nella produzione teorica o anche nell’attività pratica.
Questo ha a che vedere con il modo in cui la persona ha vissuto sulla scena del mondo, impegnando ovviamente la sua creatività e produttività, ma mettendo in gioco se stessa sulla scena in cui si scambiano gesti e parole con gli altri, si è ascoltati e visti dagli altri e ci si dà cura della preservazione di questa possibilità unica di essere se stessi. In poche parole, la forma più elevata di agire, quella che esprime al massimo grado la dignità della condizione umana, non è il fare produttivo, bensì l’agire politico, in cui si passa da un atteggiamento individualistico a uno di relazione.
Critica del totalitarismo e primato della “vita activa”
Hannah Arendt orienta gran parte della sua riflessione etico-politica sui problemi della condizione umana, dell’alienazione e dell’oppressione totalitaria, dei modi in cui l’uomo può trovare una via d’uscita, una possibilità di autorealizzazione. La sua prospettiva si lega alla filosofia pratica.
Al centro della teoria politica della Arendt troviamo l’analisi del totalitarismo del Novecento, che viene inevitabilmente identificato nel Nazismo e nello Stalinismo. Questo è inteso come un fenomeno che, pur avendo delle radici nell’antisemitismo e nell’imperialismo del XIX secolo, costituisce un fatto completamente nuovo nella storia dell’umanità.
Alla base del totalitarismo c’è soprattutto la società di massa, quella che viene definita “massificazione” degli individui, la loro trasformazione a membri sostituibili. Il totalitarismo, infatti, è l’effetto della passività dell’uomo e dell’appiattimento delle sue facoltà, frutto della sua riduzione ad “atomo” sociale.
Secondo Hannah Arendt, il totalitarismo “ha trasformato le classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura, ma con un movimento di massa”. Inoltre, il totalitarismo esercita il terrore sia al suo interno (con il potere quasi assoluto della polizia e lo schiacciamento di ogni oppositore), sia all’esterno (con le guerre di aggressione). Il sistema alimenta un’ideologia molto pericolosa che costituisce una sorta di “supersenso” definibile come una visione del mondo che pretende di ergersi al di sopra della totale insensatezza del dominio totalitario. Tutto ha un senso nella teoria della Arendt, infatti questo “supersenso” è uno strumento attraverso il quale si realizza l’estraneazione alle norme comuni della logica che porta al venir meno della capacità di giudicare e, quindi, a non saper distinguere il bene dal male. Tutto questo ha prodotto una cosa: la banalità del male, ossia il nazismo e gli orrori dei campi di sterminio.
Da queste riflessioni, Hannah Arendt giunge al primato della vita attiva. Occorre ripensare profondamente e alle radici la condizione umana e, nello specifico, il modo in cui gli individui si rapportano nella realtà sociale e politica nella quale vivono. Questo significa ridare importanza, il vero primato, al pensiero, alla conoscenza, alla riflessione, alla contemplazione. L’identità umana coincide con l’azione che, per la Arendt, è “l’attività politica per eccellenza, la sola che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali”. (“Vita activa” – Hannah Arendt) Secondo questa definizione, quindi, il soggetto dell’azione non mira a raggiungere finalità estrinseche, per le quali dovrebbe, appunto, estraniarsi proiettandosi tutto al di fuori di sé. La vera azione si realizza fra gli uomini e grazie ad essi. La vera azione è quella che non usa il prossimo strumentalmente per i propri fini, ma lo riconosce come essere umano diverso da sé e per questo degno di rispetto.
Le parole di Hannah Arendt, se lette con attenzione, risuonano terribilmente attuali. La guerra in Ucraina riporta a galla quanto pensavamo di aver sconfitto dopo la seconda guerra mondiale: l’insensatezza del male. O meglio ancora, la sua banalità. Non possiamo rimanere indifferenti, non possiamo fingere che tutto questo non ci riguardi, che “noi non lo faremmo mai”. Dai conflitti in Ucraina e ancor prima in Afghanistan, tutto ciò è la riprova che Hannah Arendt aveva ragione quando parlava di banalità del male. Allora, forse, è il caso di rispolverare i suoi libri, rileggere le sue parole e riflettere sul suo pensiero.
“Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso “sfida” il pensiero perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Solo il bene è profondo e può essere radicale.”
(La banalità del male – Hannah Arendt)