di Francesca Radaelli
E’ il 1962 quando l’astronauta americano John Glenn riesce a percorrere l’orbita terrestre. Siamo nel pieno della Guerra Fredda e della “corsa allo spazio”. John Glenn divenne un mito, ma dietro il grande successo del programma Mercury ci fu il lavoro di molte persone: gli ingegneri aerospaziali della NASA, ma non solo. In particolare, a calcolare le traiettorie del volo di Glenn fu una donna, Katherine Johnson. Una donna afroamericana.
Forse senza il film che racconta la sua storia – e senza il libro da cui il film è tratto – in pochi oggi saprebbero dire chi sia stata Katherine Johnson.
Del resto, la storia meritava di essere raccontata. Ci ha pensato Theodore Melfi, regista de Il diritto di contare (titolo originale Hidden Figures) uscito nel 2016, qualche anno prima della morte, a ben 101 anni, della Johnson.
Ci aveva pensato ancora prima Margot Lee Shetterly, autrice del libro omonimo dalle cui bozze il film è tratto.
Una donna afroamericana alla NASA
Katherine Johnson era una matematica, il suo lavoro consisteva nel fare calcoli, il suo datore di lavoro era niente di meno che la NASA.
Il problema è che la storia di Katherine si svolge tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Settant’anni prima che una donna potesse essere nominata comandante della stazione spaziale internazionale.
Qualche anno prima del Civil Rights Act, la legge federale approvata nel 1964 che aboliva le discriminazioni razziali negli Stati Uniti d’America. E Katherine non era solo una donna, era una donna afroamericana.
Il concetto di intersezionalità sarebbe stato elaborato decenni più tardi dal movimento femminista, a indicare il ‘peso’ delle intersezioni tra diverse linee di oppressione e discriminazione di cui le persone, e soprattutto le donne, possono essere oggetto. Prime fra tutte, proprio la linea del genere e quella del ‘colore’. Difficile essere una donna che vuole occuparsi di matematica negli Stati Uniti degli anni Cinquanta. Ancora più difficile essere una donna nera che vuole occuparsi di matematica.
Le donne non partecipavano mai alle riunioni tra gli ingegneri della NASA. Fu proprio Katherine a ottenere per prima il permesso.
Gli afroamericani non potevano utilizzare gli stessi bagni dei bianchi, e nel film si vede Katherine assentarsi ogni giorno per ben 40 minuti dal posto di lavoro per raggiungere quelli ‘riservati’ ai neri e situati a grande distanza. A dire il vero, la realtà fu un po’ diversa, e per fortuna un po’ migliore. Esistevano realmente toilette separate in base al colore della pelle, ma, racconta Shetterley nel libro, Katherine Johnson non si fece troppi problemi a utilizzare i bagni per bianchi. Un giorno qualcuno glielo fece notare, ma lei continuò a usarli comunque. Sembrerebbe, senza troppe proteste da parte delle donne bianche.
Le ‘colored computers’
Rispecchia perfettamente la realtà, invece, la scritta “Colored computers” sull’ufficio in cui le impiegate nere erano occupate nei calcoli. Veri e propri ‘computer umani’, queste donne avevano il compito di eseguire e controllare i calcoli più diversi, in modo che gli altri ingegneri della NASA avessero più tempo per dedicarsi ad altro. E anche quando arrivarono i computer veri e propri continuò ad esserci bisogno di qualcuno che ne controllasse i calcoli.
Del resto, lo stesso John Glenn, prima di essere lanciato in orbita volle che fosse proprio Katherine a controllare che i calcoli eseguiti dal nuovissimo computer IBM fossero esatti.
Una storia di molte, non di tutte
Dopo il programma Mercury, Katherine Johnson calcolò la traiettoria per la missione sulla Luna dell’Apollo 11, lavorò alla missione dell’Apollo 13, partecipò al programma Space Shuttle e alla preparazione della missione su Marte.
Nel 2015 Barack Obama, primo presidente afroamericano degli Stati Uniti, la premiò con la medaglia presidenziale per la libertà.
Il bello della storia di Katherine è che fu la storia di tante.
Sicuramente, delle sue amiche Dorothy Vaughan e Mary Jackson, co-protagoniste de Il diritto di contare. Ma anche di tutte le altre donne afroamericane che riuscirono a superare pregiudizi di ogni sorta – la segregazione razziale, certo, ma anche la diffidenza verso le ‘donne-ingegnere’ che sopravvive ancora oggi – e andarono avanti per la loro strada. La storia dimostra che, dal contributo di queste donne, gli Stati Uniti della corsa allo spazio non ebbero che da guadagnarci.
E allora, forse, il rimpianto è che la storia di Katherine sia stata sì la storia di molte, ma non abbia potuto essere la storia di tutte.