di Achille Taccagni
Laura Conti nasce a Udine nel 1921 e si trasferisce a Milano per frequentare la facoltà di Medicina. Nel 1944 entra nella Resistenza nelle file del Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà: il suo ruolo è quello, delicatissimo, di fare propaganda nelle caserme.
Dopo pochi mesi viene arrestata e detenuta dapprima a San Vittore e infine nel Campo di transito di Bolzano, dove rimane fino alla fine della guerra: qui inizia a ragionare sulla condizione femminile, con pensieri che raccoglierà poi nel suo romanzo “La condizione sperimentale”. Torna a Milano, si laurea in medicina – sarà per anni ortopedica e medica del lavoro – e riprende l’attività politica.
Negli anni Settanta è consigliera regionale in Lombardia, fra le fila del PCI. Questo ruolo la porterà a seguire in prima linea il più grande disastro ambientale che il nostro territorio ha subito nel secolo scorso – la diossina dell’ICMESA – e a ragionare, con grande lucidità per il suo tempo, sul rapporto fra impresa, ambiente e popolo. Per la sua attività di sensibilizzazione e divulgazione sulle tematiche ambientali è considerata la madre dell’ecologismo italiano. Il valore della sua opera si capisce soprattutto se lo si inserisce nel contesto in cui è stato prodotto, quello del pensiero comunista italiano degli anni Settanta, in cui l’operaismo diffuso lasciava poco spazio a ragionamenti sulla salvaguardia dell’ambiente.
In “Visto da Seveso”, Laura Conti ripercorre i mesi che vanno dal 10 luglio 1976 al giugno successivo: un diario dell’attività politica fra i banchi del consiglio regionale e fra la gente di Seveso, Desio e Cesano Maderno. Durante quei mesi la Conti lotta per ottenere certezze sui dati relativi all’inquinamento da diossina, per convincere Regione Lombardia a discutere in consiglio le modalità di bonifica, per mettere al centro della bonifica stessa i brianzoli colpiti, per ottenere nei loro confronti un giusto risarcimento. A leggere oggi quel libro, a un anno dall’inizio della pandemia, sembra un dejà vu.
Riprenderà poi il tema nel romanzo per ragazzi “Una lepre con la faccia di bambina” in cui assume il punto di vista di due adolescenti, lei figlia di un operaio meridionale e lui di un mobiliere brianzolo. Sono due libri estremamente preziosi se si vuole capire di più di quello che è stato il disastro di Seveso per questa terra, e perché ancora oggi, quarantacinque anni dopo, è considerato ancora un tabù o peggio un fatto secondario, da nota a piè pagina.
Fra i numerosi bellissimi passaggi di “Visto da Seveso”, ce n’è uno che si addice particolarmente alla Giornata internazionale della Donna e anche ad una rubrica a lei dedicata. È quello in cui la Conti riflette su cosa significa “coscienza ecologica”.
«Concettualmente il problema era, in fondo, molto semplice: o una cosa sale, oppure scende. La diossina non sale, dunque scende e se scende, il fatto che incontrerà la falda è certo. L’unica cosa incerta è il momento in cui la incontrerà. Ma anche se dovesse incontrare la falda tra cinquant’anni, il problema non cambierebbe: siamo responsabili verso i nostri posteri proprio come lo siamo verso i nostri contemporanei. “Coscienza ecologica” significa anche questo: la consapevolezza che c’è un domani, la responsabilità verso il domani. Mi trovavo di nuovo a dover fare i conti con il senso del tempo, come quella sera a Seveso quando un vecchio mi aveva detto che, per lui, la sua nipotina era immortale. Al contrario di quel vecchio, io in quel settembre ’76 entravo in uno stato di profonda angoscia per quello che accadrà fra dieci anni, o fra venti, o fra cinquanta, come se tutto fosse qui, il domani quanto l’oggi. Quando parlai di questi problemi in una riunione di madri dei bambini di una scuola materna, quel che dissi fu registrato, riassunto, ciclostilato, e in parecchi ambienti divenne un testo al quale si aggiungeva a mo’ di conclusione la richiesta di un rapido intervento di bonifica. Molti di tali ciclostilati giunsero in Regione, con centinaia e centinaia di firme. C’era un fatto strano: erano quasi tutte firme di donne. Mi chiesi se quella mia capacità di agitarmi e disperarmi per un domani molto lontano, che sicuramente non vedrò, non avesse a che fare con la circostanza che sono donna: forse le donne, orientate istintivamente o culturalmente verso la maternità, hanno con il domani un rapporto molto intenso. Hanno radici nel futuro. Altri, più prosaicamente, trovano che fosse molto femminile l’idea di “spazzare via lo sporco”, e che la mia battaglia per la rimozione della terra incontrasse favori fra le donne proprio per le immagini concrete e casalinghe che evocava. A me questa prosaicità sembrava molto poetica: che cosa c’è di più poetico che rimboccarsi le maniche e pulire il mondo?»