Donne, che storia! Miriam Makeba

di Virginia Villa

Il palcoscenico dei miei concerti è il solo luogo nel quale davvero mi senta a casa. Il solo in cui non ci sia l’esilio

Miriam Makeba è stata tante cose: una bambina africana nata nel fango e divenuta l’artista, la donna, il simbolo dell’orgoglio nero e la voce della lotta per la liberazione del suo Sudafrica.

L’INFANZIA

Caterina, infermiera sudafricana, partorisce la piccola Miriam Makeba il 4 marzo del 1932, battezzata Zenzi, dentro una capanna di un quartiere ghetto poco distante da Johannesburg. Non c’è nessuno ad assisterla perchè i medici sono solo per i bianchi. Caterina taglia il cordone ombelicale e schiaffeggia dolcemente la bambina che, però, appare subito molto deperita. Il padre, in cerca di lavoro, prega affinché non muoia e lei sopravvive, iniziando a muovere i primi passi in una terra di eterni contrasti; tra la massima povertà che non garantisce medici ai neri e la più scintillante ricchezza che calpesta i diritti altrui, tra la sabbia asfissiante e i diamanti, tra la schiavitù e la libertà. In poche parole, tra il nero e il bianco.

SUDAFRICA TEATRO DI VIOLENZE E RIVENDICAZIONI

Per comprendere meglio la natura di questi contrasti e capire perchè la terra d’origine di Miriam Makeba è stata teatro di continue violenze e rivendicazioni è illuminante leggere quello che Miriam scrisse nel suo libro “Miriam Makeba. La mia storia”: “Qualunque nuova era della Storia cominciasse, la nostra terra offriva la risorsa naturale che in quel momento occorreva: diamanti e oro per le teste coronate nell’era delle monarchie, carbone durante la rivoluzione industriale, petrolio nell’epoca delle automobili, uranio nell’era atomica. Fu per accaparrarsi queste ricchezze che i colonizzatori europei combatterono l’uno contro l’altro. Noi africani non fummo consultati né degnati della minima attenzione. Fummo spinti da parte, derubati della nostra terra, e quando protestammo fummo massacrati. Da allora sono passati trecento anni, ma il peso di quell’oppressione grava ancora sulle nostre spalle, senza essere in alcun modo divenuto più leggero”.

LA MUSICA

L’incontro con la musica avviene quando Miriam Makeba era ancora piccolissima. A cinque anni si ritrova orfana di padre, morto per una malattia sconosciuta, a vivere con la nonna e con i suoi fratelli. La madre è assente perchè per garantire la sopravvivenza della sua famiglia si è trasferita a Johannesburg per lavorare come donna delle pulizie nelle case dei bianchi. Miriam la raggiunge una volta al mese, su un treno riservato ai neri, e quando arriva si balla, si canta, si suona l’armonica, la pianola, il tamburo. In questi momenti di evasione, la piccola Miriam si sente felice. Ma ci vuole poco per ripiombare nella paura. Bastano le grida dei poliziotti bianchi che controllano i permessi di soggiorno. Senza questi non si può nemmeno attraversare la città. Chi non lo possiede è residente illegale, viene picchiato e rinchiuso in prigione.

La musica entra nel dna di Miriam Makeba grazie alle visite alla madre e quando cresce inizia a frequentare una scuola riservata ai neri nella quale vi è un piccolo coro. L’insegnante di Miriam si accorge subito delle potenzialità della giovane e nel giorno della visita in Sudafrica di re Giorgio d’Inghilterra e di sua figlia, la principessa Elisabetta, nel 1947, è Miriam a esibirsi per loro. Intona “Com’è triste la vita di un nero”, un canto in lingua indigena, che incita a reagire alle sofferenze prodotte dalla colonizzazione: Svegliati, gente mia! Uniamoci tutti/Perché l’errore è tra di noi. La canzone poco dopo verrà messa al bando.

LA NASCITA DELL’APARTHEID

Nello stesso anno della visita regale in Sudafrica, il 1947, si tengono le elezioni che vedono la vittoria del Partito Nazionale e la successiva nascita dell’apartheid, la politica di segregazione razziale. Con questo sistema politico si dichiarava che il Sudafrica non era mai appartenuto agli indigeni locali che, anzi, adesso si chiamavano bantu. D’ora in avanti tutti gli africani, dal Congo fino all’estremo sud, tribù da sempre diverse le une dalle altre, erano da considerarsi tutte popolazioni bantu. Nelle case le radio informavano su cosa si poteva e non si poteva fare, perché l’apartheid richiedeva misure rigide e regole da rispettare per tenere ben separati i neri dai bianchi. In questo periodo, e per i successivi quarantaquattro anni (l’apartheid venne abolito nel 1991) milioni di uomini e donne di colore di etnia bantu furono sfrattati con la forza dalle loro case e deportati nei bantustan. Furono privati di ogni diritto politico e civile. I negozi erano obbligati a servire tutti i clienti di etnia bianca prima di quelli di etnia nera.

LA CARRIERA NELLA MUSICA

Se Miriam Makeba è diventata una leggenda della musica sudafricana è grazie al cugino che, intervenuto in un momento delicato della vita di Miriam, la invita ad esibirsi nella sua band, i Cuban Brothers, un complesso composto da un percussionista, un pianista, alcuni ottoni, voci maschili e lei come solista. Cantano canzoni americane: il soul, lo swing, il jazz, il gospel. Miriam viene subito notata da una band molto famosa nel Paese, che incide dischi e suona dappertutto. Sono i Manhattan Brothers. Che la scritturano subito e la battezzano Miriam Makeba invece di Zenzi.

Una sera a un suo concerto ci sono dei giovani con la bandiera dell’African National Congress, associazione nata nel 1912 in difesa dei diritti dei neri. Il colore nero rappresenta gli africani, il verde la terra fertile, l’oro la ricchezza mineraria. Sono molto impegnati, parlano della Carta delle Libertà, un documento in cui si afferma che il Sudafrica appartiene a tutti quelli che ci vivono, neri e bianchi. A fine concerto, uno di questi giovani la saluta, gli piace il suo modo di cantare. Si chiama Nelson Mandela. Inizia così una grande amicizia che legherà Miriam Makeba al futuro Presidente del Sudafrica, portandola ad appoggiare tutte le sue battaglie.

L’ESILIO

La fama e il successo di Miriam Makeba iniziano a farsi sentire grazie anche alla sua partecipazione a diversi film nei quali dona la sua voce come colonna sonora. Proprio uno di questi film, “Come back Africa”, viene accettato al Festival di Venezia. Miriam Makeba è attesa lì.

Questa grande donna diventa il simbolo dell’Africa che vuole essere libera. Così cominciano i suoi spettacoli d’impegno con gli studenti delle università, degli istituti tecnici, con gli operai, i lavoratori delle miniere. Dopo la proiezione del documentario in molti vogliono capire di più dell’Africa, come stanno veramente le cose. Corre voce che si stia organizzando una protesta, una marcia non violenta contro l’obbligo del lasciapassare. Un evento storico visto che in Sudafrica non si sono mai svolte proteste organizzate. Poco dopo viene organizzata una marcia non violenta contro l’obbligo del lasciapassare. Ma la marcia pacifica sfocia nella tragedia. Contro i partecipanti disarmati viene mandato l’esercito che spara e massacra.

Miriam vuole tornare a casa, ma dal Consolato le fanno sapere che il suo passaporto non è valido. Nessun viaggio di ritorno. Ritenuta pericolosa, la sua voce disturba il regime di Pretoria. Miriam Makeba risulta troppo pericolosa per un paese che deve essere tenuto sotto controllo anche attraverso la schiavitù e l’apartheid. Miriam Makeba viene esiliata.

UNA VITA PER LA LIBERTA’

L’esilio di Miriam Makeba durerà trent’anni, al termine del quale tornerà nella sua terra d’origine dove viene accolta con amore e riconoscenza. La rinominano Mama Africa e qui prosegue la sua lotta contro il razzismo, la schiavitù e per i diritti dei neri.

Miriam Makeba morirà la notte del 9 novembre 2008 a causa di un attacco cardiaco a Castel Volturno dove, qualche ora prima, nonostante forti dolori al petto, si era esibita in un concerto contro la camorra, che lì aveva ucciso sei immigrati africani. Il concerto era dedicato anche allo scrittore Roberto Saviano.

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