Donne, che storia! Nadia Murad

di Virginia Villa

“Molte persone hanno visto il genocidio del mio popolo dai propri salotti. Guardavano con orrore e incredulità mentre la mia comunità era soggetta a violenze indicibili. E quando un conflitto o una tragedia scompare dalle notizie in prima pagina, si ritiene che non sia più un problema. Il genocidio è ancora in corso perché 200.000 yazidi sono ancora sfollati, migliaia di donne e bambini sono ancora dispersi o prigionieri e quelli che provano a ritornare a casa non trovano più nulla.” 

Queste sono le parole di Nadia Murad, attivista irachena per i diritti umani che dall’agosto del 2014, quando venne rapita e torturata da parte dell’Isis, ha iniziato una lunga battaglia per la liberazione del suo popolo.

IL RAPIMENTO

Nell’agosto 2014 la vita di Nadia Murad, ventunenne yazida del Sinjar, nell’Iraq settentrionale, viene improvvisamente sconvolta. I militari dello Stato Islamico, con la ferocia e la violenza che li contraddistingue, fanno irruzione nel suo villaggio. L’obiettivo della milizia è sterminare meticolosamente tutti coloro che non professano la religione islamica ed è raggiunto attraverso un metodo spietato: incendiare le case, così da costringere le persone ad uscire allo scoperto.

Il passo successivo ha il sapore della tragedia e disumanizzazione: i militari radunano i maschi adulti per eliminarli a colpi di Kalashnikov, arruolano i bambini più piccoli e rapiscono le donne, tra cui anche Nadia Murad. Sono forse quest’ultime coloro alle quali spetterà la sorte peggiore. Per Nadia Murad e le centinaia di ragazze come lei, giovanissime e vergini, inizia un vero calvario. Separate dalle madri e dalle sorelle più grandi, già sposate, vengono private di ogni diritto e, soprattutto, della dignità di esseri umani. Da quel momento, per i terroristi dell’Isis, saranno soltanto “sabaya”, schiave sessuali, merce da vendere e scambiare per soddisfare le voglie dei loro padroni.

LA FUGA

Dopo tre mesi di prigionia Nadia Murad riesce a scappare dai suoi rapitori; uno di questi, infatti, dimentica di chiudere a chiave la porta dell’abitazione nella quale era tenuta prigioniera e Nadia intravede la via per la salvezza. A piedi, stremata dalle torture, trova rifugio presso una famiglia della zona che l’aiuterà a raggiungere il campo profughi di Duhok, nel nord dell’Iraq.

L’abisso della prigionia, gli stupri selvaggi, le torture fisiche e psicologiche, le continue umiliazioni, insieme al dolore per la perdita di quasi tutti i parenti, vengono raccontati da Nadia con parole semplici e dirette, e proprio per questo di straordinaria efficacia. Le tremende sevizie le hanno lasciato cicatrici indelebili sul corpo e nell’anima, ma anziché ridurla al silenzio, cancellandone l’identità, l’hanno spinta a farsi portavoce della sua gente e di tutte le vittime dell’odio bestiale dell’ISIS.

NADIA MURAD DIVENTA AMBASCATRICE ONU E VINCE IL PREMIO NOBEL PER LA PACE

Dopo essere giunta al campo profughi di Duhok parte per un viaggio che la porta a Stoccolma, in Germania.

I suoi ideali di libertà e pace la portano a presentarsi, il 16 dicembre 2015, presso il Consiglio di Sicurezza Onu per discutere di tratta di esseri umani. E’ la prima volta nella storia dell’organizzazione che si apre un dibattito su questo tema.

Nadia Murad diventa ambasciatrice Onu, partecipando attivamente ad iniziative per la sensibilizzazione sul tema della tratta di esseri umani e rifugiati e ascoltando le testimonianze delle vittime della tratta e del genocidio.

La sua attività di promotrice della pace non passa inosservata e presto iniziano ad arrivare importanti premi interazioni. Nel 2016 riceve il Premio Václav Havel per i diritti umani, sempre nel 2016 riceve, insieme a Lamiya Ahi Bashar, il Premio Sakharov per la libertà di pensiero e nell’ottobre del 2018 riceve, insieme al medico Denis Mukwegw, il Premio Nobel per la Pace per l’impegno speso nel contrastare la violenza sessuale nei scenari di guerra.

UNA DONNA LIBERA CHE LOTTA PER IL SUO PAESE

Oggi Nadia è una donna libera, che ha scelto con coraggio di denunciare al mondo intero il genocidio subìto dal suo popolo, non per invocare vendetta, bensì per chiedere giustizia, affinché i colpevoli compaiano di fronte alla Corte penale internazionale dell’Aia e vengano giudicati e condannati per i loro orrendi crimini contro l’umanità.

Ma il suo messaggio è soprattutto un pressante invito a non lasciarsi sopraffare dalla violenza e a conservare intatta, sempre e comunque, la fierezza delle proprie radici, e una struggente lettera d’amore a una comunità e a una famiglia distrutte da una guerra tanto assurda quanto spietata.

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