Elezioni regionali 2023: La disfatta

di Laurenzo Ticca

La sberla è arrivata. Prevedibile, meglio, scontata. La destra guidata da Giorgia Meloni conquista la Regione Lazio e conferma la propria forza in Lombardia (è dal 1995  che governa ininterrottamente)

Un progressivo spostamento a destra degli equilibri politici che inquieta  e che gli elettori (sempre più delusi) hanno voluto. Leggeremo oggi gli editoriali che ci spiegheranno come tutto ciò sia potuto avvenire. La forza dei post fascisti, la confusone a sinistra, l’astensionismo, il flop del Cinquestelle, e poi il Pd.

Forza essenziale della nostra democrazia e tuttavia ostaggio delle cecità dei suoi gruppi dirigenti, della loro ottusa incapacità di uscire dal calcolo  del proprio tornaconto (10 segretari in  pochi anni: Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, Orfini, ancora Renzi, Martina, Zingaretti, Letta)  abbarbicato intorno alla gestione del potere. Sempre al governo senza mai avere vinto (con Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte, Draghi).

Elezioni regionali 2023: La Caporetto del Pd?

E allora, forse, è necessario interrogarsi  sulle origini di questa disfatta. La fusione a freddo

La slavina, è solo una ipotesi, prende corpo già nel 2007, anno di fondazione del Pd. Allora due gruppi dirigenti, superstiti dello tsunami giudiziaro e delle dure repliche della storia, decisero di avviare una  fusione a freddo.

L’obiettivo non era valorizzare la grande eredità di due forze popolari, ma costruire il nuovo. Un partito a vocazione maggioritaria, sul modello americano (non a caso di chiamò Partito Democratico) deciso ad abbandonare i vecchi insediamenti sociali per volgersi al nuovo, al nuovismo. Il vento della globalizzazione inebriava. 

Tagliare le radici e cercare il consenso nel magma di un’opinione pubblica, per sua natura mobile sul piano elettorale, volatile, vittima e ostaggio delle suggestioni televisive e dei guitti capaci di recitare davanti ad una telecamera, ma incapaci di  cogliere  le grandi trasformazioni che il paese stava vivendo.

Al centro non si vince

I ricchi sempre più ricchi i poveri sempre più poveri e con essi un ceto medio in via di dissoluzione. Il miraggio del bipolarismo e la convinzione che si vincesse al centro fecero il resto. Al centro non si vince. La destra ce lo ha insegnato. Si vince se si offre all’elettore un soggetto politico  con una identità forte, parole d’ordine chiare  che enfatizzino i propri tratti distintivi rispetto agli altri, che sappiano rappresentare degli interessi (del mondo del lavoro per esempio). 

Un precario che  guadagna 1000 euro al mese e che ne spende 600 d’affitto, a Milano non può vivere, non può pensare a una famiglia né avere dei figli. Qualcuno dovrebbe battersi perché qual contratto diventi a tempo indeterminato e quel salario lieviti. 

La sberla è arrivata. Prevedibile, meglio, scontata. Il Pd cambierà dopo questo ennesimo scacco?

Uscire e tornarne nelle periferie 

Si vince se si riporta al voto la propria gente che ha disertato le urne non se si parla ad una generica opinione pubblica per ottenere genericamente un  consenso diffuso.  Asserragliati , costi quello che costi, nella cittadella del potere non ci si è accorti del disagio diffuso delle nuove povertà in crescita. Non ci si è resi conto che il populismo era il frutto malato della propria insipienza. L’attenzione benevola che i grandi media (giornali e tv) hanno riservato al Pd, grazie allo specchio deformante degli interessi rappresentati, ha fatto il resto. Prigioniero dei talk e dell’immagine riflessa dal palco del festival di Sanremo (tutti progressisti, tutti di sinistra, tutti ripiegati sulla conquista di più avanzati diritti civili) il Pd non ha visto  la rassegnazione muta delle periferie. Che disertano le urne. O scelgono la destra.  

 

 

 

 

 

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