di Chiara De Carli
Probabilmente, molti stavano dormendo durante quella notte, quando gli ultimi respiri di un grande artista si consumavano nella camera dell’Istituto dei tumori, di Milano. Erano quelli di Fabrizio De André, il celebre poeta e cantautore italiano, che alle 2.30 dell’11 gennaio 1999, moriva a soli 58 anni, stroncato da un tumore. Una morte che ha lasciato attoniti amici, colleghi, e non solo. Fabrizio, conosciuto come Faber, apparteneva a ciascuno, soprattutto a coloro che avevano bisogno di una sua nota, di una sua parola, per sentirsi un po’ meglio.
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Esattamente, la sua forza comunicativa stava nel rendere protagonista la quotidianità, il suo modo di interpretare la vita. Nelle sue canzoni si potevano incontrare svariati volti umani, forse inusuali: erano quelli degli ultimi, dei piccoli, delle prostitute, degli emarginati. Conferiva a ciascuno di loro una nuova luce, dando loro un’ altra possibilità, all’interno delle sue canzoni. La sua abilità coincideva con la sua straordinaria capacità di abbattere i muri dei pregiudizi e della prassi.
Un uomo che ha saputo commuovere e stravolgere con estrema naturalezza qualsiasi regola, a cominciare dalla musica italiana. Renzo Arbore su Repubblica, sulla pagina di quell’11 gennaio sosteneva che Fabrizio è stato “il primo a coniugare felicemente la semplicità della musica popolare con la raffinatezza dei testi, riuscendo a rivolgersi senza mediazioni, ma anche senza compromessi”. Questa è un’immagine esatta che viene conferita a Faber, togliendo spazio a quella idea di un personaggio triste e chiuso in se stesso. Per qualcuno sarà stata una persona difficile da comprendere, e forse difficile da sostenere nella vita privata, di certo è stato un uomo che ha lasciato un’impronta nei cuori degli italiani.
C’è forse più unità d’Italia quando si invoca una brano di Faber, che in una cantata dell’inno nazionale nell’istante che precede una partita calcistica.